TRACCE - Mensile, settembre 2022
Intervista di Enrico Raggi
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Credo che non esista cosa peggiore del non accettare sé stessi, non individuare il proprio carattere e i veri bisogni, le mutazioni interiori che ci accompagnano sin da quando abbiamo l'età della ragione e che aiutano a comprendere il significato più profondo, lungo il faticoso percorso che attende ognuno di noi.C'è un momento nella vita del giovane artista adulto, nella quale il legittimo desiderio di affermazione, se non sorretto da un forte e coinvolgente slancio emotivo e generosità verso il mondo esterno, si tramuta in una sorta di avidità accompagnata da un brutto sentimento, quello dell'invidia, che fa apparire tutto deformato e inevitabilmente poi accieca, facendo perdere la percezione di sé e degli altri.
In genere, colpisce quegli individui apparentemente gioviali, simpatici e spesso intelligenti, ma che si dimostrano superficiali pur essendo in possesso di una formazione ben definita, apparentemente solida. Di sovente sono individui privi di empatia, che non avendo saputo accettare la propria natura, assecondarla e svilupparla, rimangono prigionieri di simpatie esterne dalle quali poi dipendono per la realizzazione personale, in quanto bisognosi di un continuo supporto alla propria vitale affermazione. È il momento in cui non si accorgono dell'esistenza contemporanea di tantissime persone che, nelle medesime condizioni e per i medesimi motivi, sono all'inseguimento di modelli poco appropriati, già percorsi e sfruttati in un brevissimo lasso di tempo, quello del web, che tutto consuma e brucia all'istante. Anziché cercare le novità in sé stessi, questi uomini le inseguono altrove, vagando affannosamente in frequentazioni alla moda, cercando supporti economicamente impegnativi difficilmente onorabili, ed essendo alla fine perennemente schiavi e debitori di qualcuno.
Il fraintendimento è alle porte. In un mondo che vive sul click e sul like di pochi secondi, senza inizio e senza fine, senza storia e senza memoria, si pretende di rimanere impressi e scolpiti nel marmo, ma ci si ritrova soltanto effigiati in una scultura di sabbia, presto distrutta dalle onde del mare. Allora è un continuo adeguarsi, un affanno per una spasmodica attività di confezionamento della propria immagine, a somiglianza di gusti già consumati, cliché imposti e di breve durata, senza peso, senza profondità e senz’anima. L’anima, ovvero l’unica identità personale che conta e che ci accompagna dalla nascita alla morte, con tutte le scelte e le azioni da essa dettate.
Il primo violoncello ritratto nelle immagini a colori estrapolate dal celebre video della Messa da Requiem di Verdi diretta da Karajan e nelle tre successive in bianco e nero è Mario Gusella, il mio insegnante di Direzione d'Orchestra al Conservatorio di Milano.
Ci sono parole che alle nostre orecchie suonano ormai desuete, quasi dei ricordi legati ai racconti di Cuore, il grande libro di De Amicis che generazioni di giovani hanno letto e riletto, senza tema di apparire nostalgici verso un passato comune, una volta soltanto legato ai buoni sentimenti di italiana appartenenza, e ora inevitabilmente globale.
Uno degli insegnamenti ricavati da certe letture è legato al loro contenuto inviolabile, alto di significati intorno alla nostra esistenza e moralmente inoppugnabili. Coraggio è una parola connessa a situazioni che il nostro mondo rilassato ha messo da parte, preferendogli termini legati ad altre quali l'arditezza, la temerarietà, la spavalderia, la prepotenza o l'aggressività; tutte caratteristiche che rivelano la caducità dell'uomo, incapace di affrontare situazioni critiche in modo decisamente positivo e proiettando la propria immagine oltre il breve confine temporale del successo. La ricerca spasmodica di esso è di sovente il risultato dell'educazione ricevuta in famiglia e a scuola. I genitori sono i primi artefici dell'educazione estetica dei figli, ovver
In decenni di insegnamento e attività musicale, stando a diretto contatto con centinaia di giovani, prima miei fratelli minori e poi figli e nipoti, ho sperimentato la felicità e la delusione della crescita o dell'esaurimento del potenziale di tantissimi musicisti di talento. Se a volte ciò era imputabile ad una fragilità personale o ad una mollezza dell'individuo, altre volte era il risultato dello sconsiderato intervento dei genitori, ambiziosi oltremodo e smaniosi di un rapido riconoscimento sociale, non tanto per i figli ma per sé stessi. Questo comportamento devastante, risultato di una debolezza umana molto comune fra gli individui, spesso eruditi ma non colti, ha fatto sì che quella caratteristica primaria, ovvero il Coraggio di affrontare situazioni scomode ma indispensabile per la propria evoluzione, venisse a mancare per mancanza di quella linfa vitale necessaria alla propria crescita. Per individui nati nel benessere, sia esso un risultato generazionale o familiare che li priva di una certa preparazione al disagio, alla sofferenza o educazione alla morigeratezza, la mancanza del Coraggio, ovvero di quella forza d'animo connaturata, spesso confortata dall'esempio altrui e che permette di affrontare e dominare situazioni difficili uscendone indenni, è da sempre determinante per la vita futura. Senza esso tutto diventa più difficile, pesante e a volte insopportabile.
Le scelte saranno sempre demandate ad interposte persone, abilissime nel far credere a te stesso e agli altri di possedere grandi qualità, il cui valore è già svilito a causa della mancanza di volontà d'intenzione, cosa ben differente dalla determinatezza nell'affrontare le situazioni. In battaglia si può avere la forza di uccidere il nemico, ma non essere in grado di vincere la guerra. Ci si può rifugiare in un bunker e attendere la notte, ma col sorger del sole tutto prenderà forma e definizione.
Gli anni 1845 e 1846 furono difficili per Schumann. Nel 1844 era andato in tournée in Russia con sua moglie Clara, una delle più grandi pianiste dell'epoca, ed era frustrato e umiliato dal fatto di essere riconosciuto soltanto come il marito di un artista in primo piano e non in quanto distinto compositore e critico. Il ritorno della coppia a Lipsia trovò Robert nervoso, depresso e affetto da occasionali vuoti di memoria. Poco tempo dopo ebbe un completo esaurimento e il suo medico consigliò agli Schumann di tornare all'atmosfera più tranquilla di Dresda, dove Robert aveva precedentemente conosciuto momenti felici. Si trasferirono nell'ottobre 1844 e Schumann si riprese abbastanza da abbozzare completamente la Seconda Sinfonia nel dicembre dell'anno successivo. Iniziò l'orchestrazione a febbraio, ma molte volte gli fu impossibile lavorare, non riuscendo a finire la partitura fino a ottobre.
Clara notò che suo marito, notte dopo notte, non riusciva a dormire, piangendo costantemente fino al mattino. Il suo medico descrisse ulteriori sintomi: “Non appena si occupa di questioni intellettuali, è preso da attacchi di tremore, affaticamento, freddezza dei piedi e uno stato di angoscia mentale che culmina in uno strano terrore di morte, che si manifesta nella paura ispirata in lui dalle altezze, dalle stanze di un piano superiore, da tutti gli oggetti di metallo, persino dalle chiavi e dalle medicine, e la paura di essere avvelenato." Schumann si lamentava del continuo ronzio e ruggito nelle sue orecchie, e talvolta per lui era persino doloroso ascoltare la musica. Era diventato frenetico per paura di perdere la testa. I suoi sintomi fisici, ne era convinto, erano il risultato diretto delle sue afflizioni mentali. Invece si era sbagliato.
Recenti studi hanno fatto emergere novità intorno alla malattia di Schumann, con scoperte convincenti e rivelatrici. In quei tempi pre-antibiotici, un trattamento comune per la sifilide era una piccola dose di mercurio liquido. Il mercurio alleviava i segni esterni della malattia, ma a costo di avvelenare il paziente, o meglio, la vittima. Schumann, molti anni prima del suo devoto matrimonio con Clara, ebbe sia l'infezione che il trattamento terapeutico. I problemi di cui si lamentava - ronzii alle orecchie, estremità fredde, depressione, insonnia, danni ai nervi - erano il risultato dell'avvelenamento da mercurio. Per quanto sensibile fosse, Schumann prima lo immaginò e poi fu veramente afflitto dagli altri sintomi, fino a quando non si ammalò gravemente nella mente e nel corpo. In verità ebbe a che fare con un insidioso problema fisico che aggravava i suoi problemi psicologici piuttosto che viceversa, come lui credeva.
Vista su questo sfondo di patetica sofferenza, la Seconda Sinfonia di Schumann emerge come un miracolo dello spirito umano nelle circostanze più difficili, ben definito con le stesse parole dell'autore: “Ero fisicamente in forma quando ho iniziato il lavoro e temevo che il mio stato di semi-invalido potesse essere rilevato nella musica. Tuttavia, ho iniziato a sentirmi più me stesso quando ho finito l'intero lavoro." Intorno alle basi filosofiche della Sinfonia, senza dubbio legate allo stato emotivo di Schumann, si può dire che il dramma emotivo conduce dalla feroce lotta con forze sinistre energicamente espresse nel primo movimento, all'esultante vittoria del finale; con fasi intermedie di irrequietezza febbrile dello Scherzo a quelle di profonda malinconia dell'Adagio. Questa progressione dalle tenebre alla luce come processo musicale non è nuova, infatti ebbe i suoi nobili precedenti nella Quinta e nella Nona sinfonia di Beethoven, il musicista che Schumann riveriva sopra tutti. Probabilmente Schumann considerava la costruzione della sua seconda sinfonia come uno specchio per il suo definitivo ritorno alla salute durante la sua composizione. Rimane a noi come una delle più alte vette musicali e metafisiche del romanticismo musicale. Una composizione apparentemente chiara ma totalmente enigmatica, nascosta dietro la scrittura di quattro movimenti nella stessa tonalità, in Do maggiore-minore ed una lunghezza di scrittura davvero notevole.