Tra le derive più grottesche di questo grande bluff musicale contemporaneo, spicca l'odio viscerale per il sistema tonale. Un odio che, nel tempo, si è trasformato in un vero e proprio feticcio ideologico, quasi una religione laica con le sue scomuniche e le sue ortodossie.
Per decenni ci è stato ripetuto che la tonalità fosse un relitto borghese, un retaggio del passato da cancellare per far posto alla "vera" modernità. La musica tonale, ci dicevano, sarebbe incapace di dire qualcosa di nuovo, incapace di esprimere la complessità dell’uomo contemporaneo. Come se la complessità umana potesse esprimersi solo attraverso dissonanze sistematiche, cluster, rumori industriali e micro-intervalli.
Ma la verità è un’altra: la tonalità non è un semplice "sistema", un gabbione da cui liberarsi. È un linguaggio, un codice emotivo universale che ha accompagnato secoli di musica e continua a parlare al cuore delle persone. Bach, Beethoven, Mahler, ma anche il jazz, il rock, la canzone d’autore: tutti dialogano con la tonalità, la reinventano, la contaminano. L'odio per la tonalità spesso non nasce da un’esigenza artistica autentica, ma da un bisogno di differenziarsi, di sentirsi "più puri", "più evoluti", "più intellettuali" degli altri. È un'arma ideologica per marcare un confine tra "noi" (i veri innovatori) e "loro" (i passatisti, i nostalgici). È lo stesso meccanismo che anima certi settarismi politici o religiosi: non importa più creare qualcosa di significativo, importa soltanto ribadire la propria appartenenza al clan dei "salvati".
Il paradosso più comico e al contempo tristissimo, è che, alla fine, molti di questi odiatori della tonalità hanno semplicemente sostituito una gabbia con un’altra. Hanno gettato via le regole armoniche classiche per abbracciare dogmi ancora più rigidi: serialismi integrali, algoritmi compositivi, procedure aleatorie che, anziché liberare la creatività, la incatenano dentro un formalismo sterile.
E allora, dov’è la libertà? Dov’è la sincerità? Se la tonalità è solo uno dei possibili linguaggi, perché demonizzarla? Perché negare al compositore il diritto di usarla, di reinventarla, di mescolarla a nuovi colori? Il vero artista non dovrebbe farsi domande su cosa "si può" o "non si può" fare, ma su cosa sente la necessità di dire, su come restituire al pubblico un’esperienza viva.
Il dogma anti-tonale è ormai un tic accademico, una parola d’ordine per ottenere finanziamenti, per passare selezioni nei concorsi, per essere "programmabili" nei festival. Una scorciatoia per sentirsi dalla parte giusta della storia. Ma la storia (la storia vera, non quella scritta nei bollettini universitari) non ha mai premiato i sacerdoti dell’ortodossia. La storia premia chi riesce a parlare al cuore dell’uomo. E il cuore dell’uomo non riconosce confini, non distingue tra "tonale" e "atonale": riconosce solo ciò che è vero. In un’epoca dove tutti si riempiono la bocca di "pluralità dei linguaggi", la tonalità viene invece trattata come un colpevole da processare. È un gesto di incredibile ipocrisia. La vera pluralità, la vera apertura, significa ammettere che la tonalità può convivere con la dodecafonia, il minimalismo, l’elettroacustica, il noise. Significa ammettere che la tonalità, proprio perché è radicata nell’ascolto umano, può essere ancora oggi strumento di ricerca, di vertigine e di bellezza.
Chi davvero crede nella musica come arte viva dovrebbe smettere di erigere steccati. Dovrebbe smettere di combattere guerre ideologiche ormai ridicole. Dovrebbe, semplicemente, mettersi in ascolto.
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