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sabato 7 dicembre 2019

La Cina, l'Italia e tutti gli altri



Considerazione di mera umanità.

Negli ultimi tempi si parla molto dei nuovi mestieri e delle nuove professioni che i giovani dovrebbero intraprendere per essere al passo coi tempi. Si dà per scontato il risultato di un'istruzione di base adatta per aprire le porte ad una vita lavorativa in linea con l'evoluzione tecnologica attuale e futura, però senza tener conto delle caratteristiche di unicità dei singoli individui. Una scuola che sin dall'asilo livella tutti, senza sviluppare le singole doti, senza porre le basi estetiche per la crescita dell'individuo e la sua futura posizione nella società, ne limita fortemente la sua evoluzione e in definitiva lo rende un uomo infelice. Se oggi la scuola dovesse davvero contribuire allo sviluppo dei giovani, senza essere invece quell'enorme ammortizzatore sociale già stigmatizzato da Giovanni Papini poco più di un secolo fa in una grande provocazione ripresa anni dopo da Pier Paolo Pasolini, nella quale si proponeva di chiudere le scuole e tutti gli ambienti e i luoghi chiusi che sopprimono la libertà, la crescita, la fantasia e il libero pensiero, porrebbe le basi definitive per una rivoluzione della società ed un'incrinatura potentissima di tutto il suo spregiudicato apparato economico.

A proposito dei risultati di un recente studio triennale che l'OCSE svolge su studenti quindicenni in tutto il mondo e discorrendo a proposito dell'istruzione cinese, il suo segretario generale ha dichiarato che "la qualità delle loro scuole oggi alimenterà la forza delle loro economie domani". È sicuramente vero, ma abbiamo il dovere di domandarci quali danni possano essere arrecati da un'istruzione a senso unico, proiettata soltanto all'affannoso conseguimento di un risultato utile ad un sistema economico anziché alla costruzione di un'estetica personale, ovvero di una percezione attraverso la mediazione dei sensi. Sarebbe assurdo e insensato importare sistemi educativi che si basano su tradizioni millenarie a noi estranee o tantomeno cercare di copiarli.

La nostra società euro-atlantica di derivazione illuminista, sebbene faccia acqua da tutte le parti, ha ancora nel suo nucleo una forza vitale e spirituale potente, assopita e negletta, ma tutta da riscoprire e rinvigorire. Soltanto attingendo all'antica fonte delle nostre radici filosofiche potremo davvero operare verso un nuovo "Umanesimo", non per riproporre il medesimo del mondo di Petrarca e Boccaccio che fu rivolto alla riscoperta dei classici greci e latini, ma a quello a noi più vicino e riproposto in modo attuale da filosofi come Massimo Cacciari, il quale suggerisce di ricondursi a molteplici linee di ricerca come letteratura, lingua, storia, filosofia e arte, al fine di proiettare una nuova visione su un fenomeno che se a quel tempo dovette apparire sconvolgente sul mondo contemporaneo, certamente incomprensibile ai soli occhi dei singoli, oggi potrebbe rischiarare un orizzonte molto incerto. Sarà forse l'unico modo per sconfiggere la crisi della metafisica occidentale, molto fiduciosa nella tecnica, ma che rivela il concreto fallimento dei veri ­valori che dovrebbero guidare il progresso umano, prima di ritrovarci schiavi di una tecnologia che già da tempo ci ha dato terribili avvertimenti.


Apollo e le muse sul Monte Parnaso – 1760
Anthon Raphael Mengs

giovedì 12 settembre 2019

Mahler distrutto dal digitale



Giorni fa ho avuto l'opportunità di ascoltare in diretta radiofonica una vitale e appassionata interpretazione della Quinta Sinfonia di Mahler eseguita dalla Brussels Philharmonic. Un avvenimento un po' speciale e di tipo affettivo, in quanto un mio giovane allievo, appena nominato Primo Corno dell'orchestra, si cimentava in una composizione molto amata e per lui era un po' il battesimo del fuoco. Avendo superato da qualche decennio la "mahlerite acuta" tipica dei fervori giovanili e viaggiando ormai su sentieri musicali decisamente più sereni, meno conflittuali e devastanti, ho dovuto fare un vero sforzo per ascoltare di fila tutta la composizione. Chi mi conosce, sa che di certe musiche delle quali riconosco la grandezza, riesco ormai a nutrirmi esclusivamente a dosi omeopatiche, pena un disagio psico-fisico che si riflette in insonnie notturne, con note e suoni vaganti per il cervello e che poi, per giorni, prima di essere digerite non danno tregua.

A parte ciò, per l'occasione (cosa che in un ascolto normale di un brano ben conosciuto non faccio mai) ho seguito tutta l'esecuzione con la partitura, col risultato di amplificare all'eccesso l'ascolto di una musica che in sala da concerto vive ovviamente di ben altro suono, con altri echi, altre riflessioni e le necessarie riverberazioni. Ciò che mi ha più infastidito, ma che ormai è prassi comune dappertutto, è stata la registrazione digitale. Posizionare decine di microfoni in corrispondenza dei singoli esecutori o delle singole sezioni non contribuisce certamente al miglioramento e alla definizione di un'esecuzione, casomai ne definisce i dettagli, come se fosse una radiografia sonora. Nel caso di molte musiche, che in sala da concerto vivono proprio per l'amalgama creata dall'acustica della stessa, la registrazione digitale impiegata per una trasmissione dal vivo non fa altro che snaturarne completamente il suono, restituendo all'ascoltatore un messaggio artefatto e lontanissimo dal pensiero dell'autore. Nel caso specifico, vale per Mahler ma all'opposto anche per Ravel e per altri compositori, la definizione eccessiva delle singole parti orchestrali nate in molti casi come asprezze ben congegnate inserite in un contesto sonoro generale, non fa altro che deturpare la sonorità complessiva del brano. Mahler, che di queste asprezze si nutriva, ben sapeva che in una sala da concerto sarebbero state smorzate e sarebbero arrivate alle orecchie degli ascoltatori come sottolineatura di uno stato emotivo e non come come stato emozionale frazionato e a sé stante in grado di interrompere quella tensione del discorso musicale che inevitabilmente necessita di continuità. Alla fine, questo atteggiamento maniacale nell'ambito della registrazione musicale, molto vicino ad una vivisezione sonora, non fa altro che modificare il gusto di chi ascolta (e quindi anche degli esecutori a loro volta ascoltatori) deviando su sentieri estetici completamente lontani dalla realtà, con la conseguente alterazione della percezione dell'opera in oggetto e quindi di una visione veritiera. In definitiva, privandoci di quell'ascolto di tipo analogico che ci appartiene e che è parte naturale del nostro modo di vivere. Il digitale divide ed analizza, l'analogico unisce e sintetizza, esattamente come il nostro pensiero.

venerdì 19 luglio 2019

L'incontro con Carlo Maria Giulini


Il mio primo incontro epistolare con Carlo Maria Giulini, quarantacinque anni fa, nel 1974.



Alla Scala, dopo tanti anni di assenza, diresse uno splendido concerto con i Wiener Symphoniker: Beethoven, Sinfonia Pastorale e Mahler, Sinfonia n.1. La recensione dell'allora critico musicale presso il più blasonato quotidiano milanese fu sprezzante nei confronti dell'orchestra e del direttore. Ovviamente, per questioni di mera bottega e becero protezionismo. Già a 19 anni, non avevo paura di dire ciò che pensavo e scrissi una lettera di fuoco, ovviamente non pubblicata, nella quale esprimevo rammarico per il trattamento riservato a ospiti illustri. Per conoscenza la inviai al Maestro Giulini e da allora iniziò un rapporto durato per alcuni anni che mi fece prendere decisioni definitive intorno alla Musica e, soprattutto, intorno al mondo musicale e alla sua "abitabilità". Pubblico qui la lettera, chiaramente scritta da un uomo votato in toto all'arte musicale e di uno stampo d'altri tempi.

Fu uno dei primi direttori che ebbi la fortuna di seguire alle prove ed uno dei pochi dal quale ascoltai pressoché sempre espressioni ed osservazioni di tipo musicale e quasi mai tecnico. Uomo schivo ed emotivo che sul podio si trasformava in un solenne cerimoniere, per poi ritornare alla sua privatissima vita e alle sue esclusive relazioni umane.






martedì 16 luglio 2019

La fortuna della passione


Uno dei più gravi problemi che le società industrializzate ed evolute dovranno affrontare intorno al 2050 non solo sarà quello della disoccupazione, bensì quello della impossibilità di occupazione, ovvero dell'inutilità di impiego di uomini e donne, che a causa della loro formazione non adatta ai tempi non potranno essere di alcuno aiuto alla società nella quale vivono. In parole povere, l'educazione scolastica generalizzata così come la conosciamo, sempre che sia esclusivamente supportata dalla personale ricerca della conoscenza, non servirà a nulla eccetto che alla propria soddisfazione, insufficiente comunque al mantenimento materiale per una vita dignitosa.
Le previsioni si basano ovviamente sull'esponenziale progresso tecnologico che via via causerà la sostituzione dell'opera umana materiale con quella robotizzata e quella frutto del pensiero analogico con quello digitale. Il grande matematico e filosofo Bertrand Russell, nel suo libro “Elogio dell’ozio” del 1935, si esprimeva dicendo che "la fede nella virtù del lavoro provoca grandi mali nel mondo moderno, mentre la strada per la felicità e la prosperità si trova invece in una diminuzione del lavoro". In tempi più recenti, Bruno Bertinotti, politico e sindacalista, aveva adottato lo slogan "Lavorare meno, lavorare tutti" che dietro la facile presa populista aveva nel suo più intimo significato un valore ed una prospettiva allora non ancora compresa, ma che oggi appare realtà.


Dunque, lavorare meno: Direi che come prospettiva per una diminuzione dell'alienazione personale sia un'ottima idea. Lavorare tutti: benissimo, ma significa adattarsi anche ai lavori più umili, ponendo le basi per un ritorno ad un egualitarismo di base che riguarderebbe tutte le classi sociali, sempre che per quel tempo siano destinate ancora ad esistere. Ma cosa fare nel tempo libero? Ecco che il concetto di formazione di base torna prepotente alla ribalta. Una scuola con un pensiero educativo uniformato e che livella tutti, senza alcun criterio di valorizzazione in base alle personali caratteristiche, quanto può servire all'individuo? Soprattutto, un'educazione che punta esclusivamente all'erudizione trascurando la sapienza, quanto può tornare utile? Conoscenza e sapienza possono essere scambiati per sinonimi, ma hanno un significato intrinseco differente. La prima ha un indubbio valore pratico, ma la seconda definisce un mondo interiore, senza il quale la mera conoscenza non serve, se non a porre le basi per l'adattamento ad una silenziosa e moderna schiavitù.


E qui subentra l'urgente bisogno, direi un dovere, di ritagliarsi quel mondo ideale fatto di passioni, attitudini e desideri che ci dovrebbe accompagnare per tutta la vita, soprattutto durante quella parte del tempo non dedicato al lavoro d'impiego, sia esso manuale, industrializzato o pseudo-intellettuale che per la stragrande maggioranza degli individui si rivela comunque alienante. Le passioni, gli ideali, la dedizione a ciò che più si ama e che più ci ispira dovrebbero essere ingranaggi del motore della nostra esistenza. Purtroppo, e qui la scuola ha una grande colpa, queste attitudini umane non sono sufficientemente inculcate, se non addirittura totalmente neglette. Troppo sforzo per chi è preposto alla crescita dell'individuo e costi esorbitanti per la cosa pubblica. Meglio lasciare tutto così com'è, abbandonando ognuno al proprio triste destino. Impegno significa fatica, sviluppo del pensiero significa autonomia, consapevolezza significa capacità di combattere lo "status quo" e la sua negligenza.
Chiunque abbia avuto la fortuna di potersi dedicare alla propria passione, senza dover necessariamente rinunciare a ciò che più ama è, come chi scrive e i suoi simili in campo artistico, da considerarsi molto fortunato, indipendentemente dalla situazione sociale personale di partenza. Le future generazioni non saranno in grado di dedicarsi in toto a ciò che quelle appena passate e quelle attuali sono ancora in grado di fare. Per questo motivo, chi è depositario di un certo tipo di conoscenza, ha il dovere morale di diffonderla e inculcare nelle generazioni più giovani la medesima passione che ha animato ed anima tuttora la propria esistenza.