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domenica 13 luglio 2025

Il terribile silenzio degli artisti nel mondo occidentale

In un’epoca segnata da guerre, disuguaglianze crescenti, crisi climatiche e derive autoritarie, il silenzio degli artisti occidentali suona come un eco assordante. L’artista, un tempo coscienza critica della società, sembra essersi rifugiato in un individualismo estetico, in una ricerca di bellezza sterile, oppure nell’illusione di una neutralità che diventa, in realtà, complicità.

Il sistema dell’arte è oggi profondamente legato al mercato, ai grandi collezionisti, alle sponsorizzazioni delle multinazionali. Esporsi significa rischiare l’esclusione, perdere visibilità o sostegno economico. Così, la libertà di espressione, che in Occidente è un diritto garantito, viene svuotata dall’interno, trasformandosi in disimpegno. Ma c’è un silenzio ancora più grave: quello nei confronti dell’Islam radicale. Negli ultimi anni, l’espansione di movimenti integralisti islamici in Europa è diventata una delle questioni più delicate e preoccupanti. La paura di offendere, di essere accusati di islamofobia, di attirare minacce o violenze, ha spinto molti intellettuali e artisti a non prendere posizione. Si preferisce tacere, rifugiarsi in formule generiche come “pace” e “tolleranza”, ignorando che la tolleranza non può significare accettazione di pratiche e ideologie che negano diritti fondamentali, in primo luogo quelli delle donne e delle minoranze.

Il caso dell’Inghilterra è emblematico: la creazione e il riconoscimento, anche se solo in materie civili e di diritto familiare, dei tribunali islamici (sharia courts), ha generato un precedente inquietante. In nome di un multiculturalismo mal interpretato, si è arrivati a legittimare sistemi giuridici paralleli che mettono a rischio l’uguaglianza davanti alla legge, un pilastro essenziale delle democrazie occidentali. 

A questa ipocrisia generalizzata non sfugge nemmeno il mondo della musica. Oggi assistiamo a un paradosso: la musica, che dovrebbe essere voce universale di libertà, spesso si piega al calcolo politico o al conformismo. Un esempio lampante è la recente decisione di permettere a Valery Gergiev, direttore d'orchestra notoriamente vicino al regime di Putin, di tornare a dirigere in Italia, come se fosse un gesto di grande “apertura” o un atto di alto impegno etico.


Dietro questa apparente concessione “tollerante” si cela una profonda ipocrisia: mentre si puniscono o censurano artisti dissidenti, o si ostracizzano voci scomode, si accolgono figure che non hanno mai nascosto il loro sostegno a governi autoritari. Si vende come “arte oltre la politica” ciò che, in realtà, è semplice opportunismo, utile a riempire poltrone e vendere biglietti.

Nel frattempo, si tace sulla repressione dei diritti in Russia, sulla guerra in Ucraina, sui crimini contro le opposizioni, sulla sistematica cancellazione della libertà di stampa. Di fronte a questi sviluppi, il silenzio degli artisti diventa non solo un segno di codardia, ma un tradimento del loro ruolo storico: dare voce agli emarginati, difendere la libertà, sfidare il potere e le ingiustizie. In altre parti del mondo, ci sono artisti che rischiano la vita per un murales, una canzone, un verso di poesia. In Occidente, dove la parola è (ancora) libera, molti scelgono invece di autocensurarsi. Il risultato è un mondo artistico sempre più asettico, prigioniero della logica del consenso e della paura di perdere follower o contratti.

C'è bisogno di coraggio, ora più che mai. Di arte che sappia denunciare, che osi turbare, che rifiuti il compromesso facile, perché un artista che tace di fronte all’ingiustizia non è solo un artista silenzioso, ma è un artista complice.

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