C'è un paradosso che ti accompagna con l'età che avanza: più negli anni ti avvicini all’arte vera, alla scienza più alta, al sapere profondo, più ti senti distante. Perché più vedi, più ti rendi conto di quanto resta da scoprire e che non farai in tempo a vedere. L’eccellenza, quella autentica, non si misura con gli altri, ma con l’idea luminosa, esigente e terribile di ciò che potrebbe essere. E più ci si avvicina, più si scopre quanto manca.
Chi è davvero grande non parla quasi mai di grandezza. La cerca, la insegue nelle piccole e grandi cose quotidiane, la teme e la serve; e nel servirla, si scopre sempre manchevole. Poi ci sono coloro che imitano questo gesto, il gesto nobile del paragone con l’ideale, ma lo fanno per mestiere, non per verità: fingono modestia per vestire meglio la loro vanità. Parlano di profondità senza averne mai visto il fondo, si mettono accanto all’Assoluto come ci si mette accanto a uno specchio: non per perdersi, ma per ammirarsi. E il pubblico applaude. Ma chi ha conosciuto la fatica del mestiere, chi sa cosa significa studiare, dubitare, ricominciare ogni giorno, li riconosce e tace, perché non c’è bisogno di smascherarli: basta mettersi ancora una volta al servizio di quell’idea di perfezione silenziosa, inattingibile e vera, che ogni giorno ci chiede di essere più profondi, più rigorosi, più onesti. L’uomo davvero grande si riconosce nella capacità di sottrarsi allo sguardo compiaciuto del mondo, di continuare a studiare, interrogarsi, tremare davanti alla bellezza e alla verità.
Chi è artista e formatore, questa differenza la conosce bene. L'ha vista ogni giorno, nei giovani che ha formato e nei colleghi che ha incontrato: chi cerca davvero la perfezione lotta, si mette in discussione, tace, studia e ristudia. Chi la finge, si compiace e spesso si racconta come già arrivato. È l’eterno contrasto tra l’apparire e l’essere.
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