In tempi recenti si è affermata nella regia lirica una tendenza sempre più invadente: l’ossessione per l’attualizzazione forzata. Sembra che molti registi, anziché interrogarsi sul senso profondo dell’opera, sulla sua drammaturgia musicale e sulla visione dell’autore, sentano il bisogno impellente di piegarla a ideologie, estetiche e costumi dell’oggi, spesso del tutto estranei al mondo poetico ed etico in cui quell’opera è nata.
Il risultato è un cortocircuito espressivo. Le passioni universali che animano il teatro musicale – l’amore, la gelosia, l’ambizione, il dolore, la vendetta, il destino – vengono ridotte a semplici pretesti per denunciare fatti di cronaca, per insinuare parallelismi politici grossolani o per ostentare una presunta modernità che, in realtà, invecchia nel giro di una stagione.
Collocare una Traviata in una sala d’aspetto di un aeroporto, ambientare Rigoletto in una periferia urbana da fiction televisiva, trasformare Don Giovanni in un magnate post-capitalista in giacca firmata e sneakers non aggiunge nulla – e spesso toglie molto – all’opera. Sono scelte che, nella loro pretesa di originalità, finiscono per tradire lo spirito stesso della partitura, del libretto e della forma teatrale in cui l’opera si compie.
Peggio ancora, quando il gioco dell’attualizzazione diventa propaganda, e il palcoscenico lirico – che dovrebbe essere luogo di immaginazione, sublimazione e confronto umano profondo – si riduce a megafono di ideologie del momento, la distanza con l’opera d’arte diventa siderale. Si rompe l’equilibrio tra verità teatrale e convenzione, tra parola cantata e gesto scenico, tra tempo storico e tempo drammatico. E con esso si spezza anche il patto con il pubblico, che spesso – nonostante tutto – continua a cercare in teatro un’esperienza di bellezza, verità e trascendenza, non un editoriale mascherato da spettacolo.
Non si tratta, sia chiaro, di invocare il museo, la ripetizione sterile o la fedeltà cieca alla tradizione. Al contrario: il teatro d’opera ha sempre vissuto grazie alla capacità di rigenerarsi, di parlare al presente, ma sempre rispettando la coerenza interna dell’opera e il linguaggio musicale che la sostiene. Un grande regista sa ascoltare la musica, sa leggere tra le righe del pentagramma, sa far emergere ciò che l’opera dice senza bisogno di forzarla. È quando il regista impone a priori una propria agenda sull’opera – incurante del suo DNA profondo – che nasce l’inutilità, o peggio, l’arbitrio.
L’opera non ha bisogno di travestimenti per essere attuale. Le grandi opere lo sono da secoli, proprio perché parlano al cuore dell’uomo, non alla contingenza della moda. Ascoltiamole, rispettiamole, serviamole: saranno loro a parlarci dell’oggi, molto meglio di quanto possa fare un costume contemporaneo posticcio o un riferimento politico didascalico.
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