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venerdì 27 giugno 2025

Uomo e meccanica quantistica

Il principio di indeterminazione di Heisenberg, che afferma come non sia possibile conoscere simultaneamente con precisione assoluta la posizione e la velocità di una particella, può offrire una suggestiva metafora se lo applichiamo all’osservazione delle persone. Ogni volta che osserviamo profondamente un essere umano cercando di capirlo, analizzarlo, e definirlo, inevitabilmente lo influenziamo. Come nel principio di indeterminazione, l'atto stesso di osservare modifica ciò che si osserva. Più cerchiamo di cogliere "dove" una persona si trova interiormente (le sue emozioni, le sue convinzioni), meno possiamo sapere "dove va" (il suo divenire, la sua libertà di cambiamento). E viceversa: più ci concentriamo su ciò che diventerà, sulle sue potenzialità, meno possiamo afferrare ciò che è ora. Per questo motivo, il desiderio di "cambiare" qualcuno porta sempre con sé un’ambiguità: non cambiamo mai una persona neutra, ma una che abbiamo già alterato semplicemente cercando di comprenderla. La vera trasformazione, allora, non nasce dall’osservazione analitica, ma dalla relazione viva, in cui l'osservatore e l'osservato si trasformano insieme.

Sul limite dell’osservare, sorge spontanea una riflessione sull’indeterminazione dell’essere umano.

Il principio di Heisenberg sancisce che non possiamo conoscere simultaneamente con precisione assoluta la posizione e la quantità di moto di una particella. L’atto stesso dell’osservazione ne altera lo stato. Ma cosa accade quando rivolgiamo questo principio non alla materia, bensì all’uomo? L’essere umano, nella sua interiorità, non è meno sfuggente di una particella subatomica. Chi si illude di poterlo comprendere del tutto, come se fosse una macchina trasparente riducibile a schemi, comportamenti o diagnosi, commette un errore di categoria. Ogni tentativo di osservarlo nel profondo ne perturba la natura. L’interiorità, infatti, non è un oggetto da sezionare, ma un campo di possibilità, un processo in atto. La nostra attenzione, il nostro giudizio e persino il nostro amore agiscono su chi osserviamo, lo modellano e lo spostano. Questo ci pone davanti a un paradosso: non possiamo conoscere una persona e al contempo non alterarla. Più tentiamo di coglierla in un istante, fermarla, definirla, dire “ecco, è così”, più perdiamo la sua direzione, il suo divenire. Come per la particella di Heisenberg, fissare il “dove” cancella il “dove va” e se ci fissiamo sul divenire, perdiamo l’attimo del suo essere.

Werner Karl Heisenberg nel 1927, anno in cui pubblicò il suo articolo sul principio di indeterminazione

Questo principio ci ammonisce anche sul tema del cambiamento: possiamo davvero “cambiare” qualcuno? O stiamo semplicemente agendo su un riflesso di ciò che ci appare, dimenticando che ciò che vediamo è già, in parte, opera nostra? Ogni tentativo di mutare l’altro presuppone un’immagine che ne abbiamo, e questa immagine è già una manipolazione.

Il rispetto della libertà altrui, dunque, non consiste nel non intervenire, ma nel riconoscere il nostro limite: non possiamo conoscere né cambiare senza essere anche noi coinvolti nel processo. Ogni relazione autentica è una co-creazione, dove osservatore e osservato si trasformano insieme, in un gioco perpetuo di riflessi, risonanze e infinite possibilità. In definitiva, il principio di indeterminazione, trasposto alla sfera dell’umano, ci insegna l’umiltà. Non possiamo afferrare l’altro come un oggetto. Possiamo solo danzare con la sua indeterminazione, lasciandoci cambiare mentre cerchiamo di comprendere.



L’arte di educare

L’arte di educare nell’ambito musicale non consiste soltanto nel trasmettere competenze tecniche, stilistiche o storiche, ma nel generare autonomia. Questo è, forse, il compito più arduo per un educatore autentico: condurre l’allievo verso una libertà interiore ed espressiva che non sia mai mera imitazione, né prigionia del gusto altrui. Raggiungere questo traguardo significa anche avere il coraggio, a un certo punto, di sparire, lasciando che il discepolo cammini con le proprie gambe, magari sbagliando, ma costruendo un’identità autentica.

Tuttavia, tale processo non è mai neutro. Tra docente e discente si instaurano inevitabilmente dinamiche affettive, emotive, a volte persino inconsce, che possono diventare al contempo nutrimento e ostacolo. Il maestro deve vigilare perché l’ammirazione non si trasformi in sudditanza, e l’influenza in imitazione. Educare, etimologicamente, significa “trarre fuori”, non “plasmare a propria immagine”. In questo senso, l’arte dell’insegnamento è anche un’arte del distacco: saper lasciare andare l’altro, dopo avergli indicato la strada.

Eppure, la relazione non finisce con la lezione. Se vissuto con onestà e profondità, il legame educativo può trasformarsi in qualcosa che va oltre il rapporto professionale: un’amicizia umana e artistica, che resiste al tempo, alle distanze, ai cambiamenti. Questo tipo di rapporto è raro, prezioso, e si fonda non su un’appartenenza gerarchica, ma su una condivisione di valori, di visione artistica e spirituale.


In musica, tutto questo è ancora più intenso. La musica stessa è un luogo di risonanza interiore, dove ciò che è autentico vibra e ciò che è costruito cade. Per questo motivo, il feeling che si crea tra maestro e allievo spesso prescinde dall’età, dalla posizione, perfino dall’esperienza. Esiste una dimensione intangibile, quasi misteriosa, in cui due anime si riconoscono: è lì che nasce l’atto educativo più profondo. Il maestro, in fondo, è colui che risveglia ciò che nell’allievo è già presente, ma dormiente. Come uno scultore che, più che modellare, libera la forma intrappolata nella pietra.

Educare, allora, significa rendere l’altro libero, eppure mai solo. Lasciarlo andare, ma restare presente nella memoria profonda dei suoi gesti, delle sue scelte, delle sue note. È un atto d’amore disinteressato, che fiorisce davvero solo quando il maestro accetta di diventare superfluo.


martedì 24 giugno 2025

Il cellulare, la crisi e il senso del dovere: un campanello d’allarme per il futuro


Un episodio recente accaduto durante l’arruolamento di nuovi allievi carabinieri solleva interrogativi inquietanti sul presente e, ancor più, sul futuro della nostra società. Un numero significativo di giovani, dopo appena una settimana di corso, è stato allontanato: la causa non era l’inadeguatezza fisica né intellettuale, ma una crisi psicologica generata dalla privazione del telefono cellulare. Una semplice misura disciplinare – del tutto prevedibile in un contesto militare – si è rivelata insostenibile per molti.

Questo fatto non è solo curioso o imbarazzante. È sintomatico di una fragilità profonda, culturale e identitaria. In un’epoca dove l’immediatezza della connessione sembra sostituire la profondità dell’interiorità, l’assenza dello smartphone diventa una mutilazione dell’Io, quasi una perdita di senso. Ma se bastano pochi giorni senza schermo per generare ansia, disorientamento, rifiuto del contesto... allora dobbiamo chiederci: quali sono le risorse interiori dei nostri giovani? Quali valori reggono il loro rapporto con la realtà?

Nel delicatissimo ambito della tutela dello Stato, dell’ordine pubblico e del benessere collettivo, è impensabile affidarsi a figure incapaci di tollerare il silenzio, la solitudine, la disciplina. L’addestramento militare non è solo fisico: è innanzitutto etico. Richiede forza d’animo, senso del dovere, capacità di rinuncia. Se queste virtù vengono sopraffatte dalla dipendenza da un oggetto, il problema non è solo dei carabinieri: è della società intera.

Forse è tempo di ripensare non solo la formazione dei futuri servitori dello Stato, ma anche la formazione dell’uomo, sin dall’infanzia. Recuperare il valore della presenza, dell’autonomia interiore, della pazienza. Altrimenti rischiamo di costruire un mondo sempre più connesso, ma sempre meno capace di reggere la realtà.


lunedì 23 giugno 2025

Europa, oggi.



L’Europa di oggi è una società esausta, adagiata nella sicurezza apparente del benessere materiale e dei diritti acquisiti. Ha trasformato i comfort in anestetici morali e la pace in un alibi per l’inazione. Dopo decenni di crescita e progresso, è diventata passiva, timorosa, incapace di difendere ciò che un tempo aveva conquistato a caro prezzo: la libertà autentica dell’individuo.

La libertà vera, quella che si assume il rischio della responsabilità, del dissenso, dell’identità personale e collettiva, è stata progressivamente sostituita da una forma di democrazia amministrata, astratta, ridotta a procedura, incapace di generare virtù civiche. La democrazia, svuotata della sua anima, è diventata fine a sé stessa: non più mezzo per la libertà, ma idolo autoreferenziale.

Questa Europa confonde la pace con la viltà, la neutralità con la giustizia, l’equilibrio con la rinuncia. Si proclama “comunità di valori” ma non è più disposta a combattere per quei valori. È diventata pavida: preferisce evitare lo scontro, qualsiasi esso sia, pur di conservare la propria fragile e confortevole stabilità. E nel farlo si è resa imbelle, cioè priva non solo di mezzi, ma soprattutto di volontà di difesa.

Di fronte alla minaccia crescente di nuovi totalitarismi – che non si presentano più in uniforme, ma si insinuano nei mercati, nei media, nei codici culturali – l’Europa resta paralizzata, prigioniera di un egoismo postmoderno: teme la guerra non per ciò che rappresenta in sé, ma perché disturberebbe la sua quotidianità narcotizzata. Il rischio non è la guerra: il rischio è che, per evitarla a ogni costo, si finisca per perdere ciò che essa talvolta difende – la libertà, la dignità, la verità.

Abbiamo paura non perché siamo saggi, ma perché siamo stanchi, e la stanchezza ha ucciso il coraggio. Abbiamo smarrito l’ethos tragico della storia: non siamo più capaci di accettare che certe conquiste richiedano sacrificio, dolore, lotta. Ci accontentiamo di “funzionare”, di consumare, di commentare indignati sui social, ma non siamo più disposti ad agire. L’Europa è vecchia, non solo demograficamente, ma spiritualmente.

Eppure, la storia non perdona l’inerzia. Nessuna civiltà può sopravvivere se non è disposta a difendere sé stessa, a rinnovare le proprie radici, a mettere in discussione i propri automatismi. Se l’Europa non ritroverà una volontà politica e culturale forte, capace di ripensare i fondamenti della libertà in chiave attiva e coraggiosa, finirà per essere non invasa, ma semplicemente sostituita, non da un nemico esterno, ma da se stessa. O meglio: da quel vuoto di sé che ha lasciato crescere dentro, senza più alcun desiderio di riempirlo.


La crisi della musica colta contemporanea: una frattura tra intelletto e ascolto

Nel corso del Novecento, la musica cosiddetta "colta" ha conosciuto una deriva che ne ha compromesso il rapporto con il pubblico e con la sua stessa funzione espressiva. Molti compositori, forti di una conoscenza profonda della sintassi musicale, si sono progressivamente allontanati dall'ascolto sensibile per rifugiarsi in un linguaggio autoreferenziale, fondato su costruzioni intellettuali complesse, spesso indecifrabili per chi non possieda gli strumenti teorici adeguati. Questo processo ha avuto come conseguenza una crisi della comunicazione musicale e una frattura sempre più profonda tra la musica d'arte e i suoi potenziali fruitori.

La musica, per millenni, ha parlato direttamente all'anima degli uomini, traducendo emozioni, tensioni, aspirazioni in suono. È sempre stata, anche nei suoi momenti di maggiore raffinatezza formale, un'arte della percezione e dell'esperienza sensibile. Ma a partire dal secondo dopoguerra, si è progressivamente affermata una concezione della composizione come esercizio astratto, spesso giustificato unicamente da logiche interne al linguaggio musicale stesso. L'opera veniva pensata per essere analizzata più che ascoltata, come se il suo valore dipendesse dalla coerenza strutturale piuttosto che dalla sua efficacia comunicativa.

Questa posizione ha generato una sorta di scisma culturale. Il pubblico, confuso e intimorito, ha iniziato a sentirsi inadeguato, incapace di "capire". L'atto dell'ascolto, che dovrebbe essere spontaneo e naturale, è stato sostituito da un esercizio critico e intellettuale riservato a pochi. La musica colta si è rinchiusa in un recinto elitario, perdendo la sua funzione originaria di arte condivisa. La reazione, inevitabile, è stata una progressiva emarginazione della musica contemporanea dai circuiti della fruizione popolare: mentre le sale da concerto continuavano a proporre i capolavori del passato, le nuove creazioni venivano percepite come ostiche, fredde, prive di emozione.

Non si tratta, sia chiaro, di condannare in blocco l'innovazione o la complessità. La musica non deve rinunciare alla profondità, alla ricerca, al pensiero. Ma deve ritrovare un equilibrio tra intelligenza e sensibilità, tra costruzione e partecipazione. L'errore è stato quello di sostituire il gusto con il concetto, l'ascolto con l'analisi, dimenticando che la musica vive nel tempo dell'esperienza, non solo nello spazio della partitura.


Riconoscere questa crisi significa aprire una riflessione sincera sul ruolo della musica oggi. Serve un nuovo umanesimo musicale, capace di ricomporre la frattura tra compositore e pubblico, tra tecnica e emozione, tra sapere e bellezza. Una musica colta che torni a parlare al cuore dell'uomo, senza per questo rinunciare alla propria complessità, è non solo possibile, ma necessaria. Solo così si potrà restituire alla musica la sua piena dignità di arte viva e vitale, capace di incidere nel presente e di orientare il futuro.

Questo rinnovamento non passa per una semplificazione superficiale né per un facile ritorno al passato, ma per una consapevole riscoperta del potere comunicativo della musica. Occorre ripensare la formazione del compositore, rieducare l’ascoltatore, ristabilire un dialogo tra innovazione e tradizione. La musica d’arte non deve parlare solo a chi la scrive, ma anche — e soprattutto — a chi l’ascolta. Solo una musica che si lasci ascoltare senza per questo rinunciare alla profondità potrà ritrovare il suo posto nella società.

In definitiva, il futuro della musica colta non può essere costruito sull’autoreferenzialità, ma sulla capacità di toccare, con autenticità, il sentire umano. Ritrovare questa via significa restituire alla musica il suo statuto più alto: quello di linguaggio universale dell’emozione e del pensiero.


Il silenzio che ci rende complici

Viviamo in un tempo in cui si confonde il silenzio con la saggezza, la discrezione con la prudenza, il mutismo con la neutralità. Ma non illudiamoci: chi tace di fronte all’ingiustizia non è neutrale, è complice. Chi non prende posizione, chi non scrive, chi non si espone, si condanna a diventare pietra inanimata e inutile, innocua per il potere. Un oggetto inerte che non fa paura, che non intralcia, che può essere ignorato o calpestato senza alcun problema.


Non serve tappare la bocca a chi non parla. È già spento, domato, assuefatto. Il potere – quello vero, arrogante, meschino – non teme chi urla. Teme chi pensa. Teme chi scrive. Teme chi osa dire “no”. Perché chi parla costringe gli altri ad ascoltare. Chi si esprime, smuove coscienze. Chi grida la verità, anche da solo, rompe l’incantesimo dell’obbedienza cieca. E allora, diciamolo chiaramente: il silenzio non è una virtù. È una colpa, quando serve solo a proteggere se stessi. È viltà, quando lascia che siano gli altri a esporsi. È resa, quando ci si convince che nulla può cambiare. Parlate, scrivete, esprimetevi. Non diventate pietre. Le statue non cambiano il mondo. Gli uomini sì.

Dove si impara

Quando un’aula di conservatorio si presenta asettica, priva di tracce della sua storia e della storia della musica che dovrebbe custodire e trasmettere, qualcosa si spezza nel patto implicito tra generazioni.

Un’aula dove si insegna musica non è un contenitore neutro. È, o dovrebbe essere, un luogo sacro, in cui la presenza dei grandi del passato – non solo evocata nei suoni, ma anche visibile, tangibile – possa ispirare rispetto, soggezione, gratitudine. Un’aula senza un ritratto, senza un manoscritto ingiallito, senza uno strumento antico, è come una chiesa senza icone, un teatro senza sipario, un tempio senza altare. La musica, senza memoria, rischia di diventare puro esercizio, priva di spirito.
L’aria condizionata, le sedie ergonomiche, le luci a LED sono conquiste del comfort. Ma se si perde il senso di appartenenza a una tradizione, se si cancella la polvere nobile del tempo in nome della neutralità funzionale, il conservatorio diventa un ufficio qualsiasi, un luogo dove si compila il modulo della tecnica, ma dove si smarrisce l’essenza del rito artistico.

E allora viene da chiedersi: che musicisti stiamo formando? Non tanto in termini di abilità, quanto di coscienza. Perché l’arte ha bisogno di radici. Senza radici, resta solo l’eco di qualcosa che non si sa più nominare.






Considerazioni domenicali in compagnia di Leopardi.

 

C'è un paradosso che ti accompagna con l'età che avanza: più negli anni ti avvicini all’arte vera, alla scienza più alta, al sapere profondo, più ti senti distante. Perché più vedi, più ti rendi conto di quanto resta da scoprire e che non farai in tempo a vedere. L’eccellenza, quella autentica, non si misura con gli altri, ma con l’idea luminosa, esigente e terribile di ciò che potrebbe essere. E più ci si avvicina, più si scopre quanto manca.

Chi è davvero grande non parla quasi mai di grandezza. La cerca, la insegue nelle piccole e grandi cose quotidiane, la teme e la serve; e nel servirla, si scopre sempre manchevole. Poi ci sono coloro che imitano questo gesto, il gesto nobile del paragone con l’ideale, ma lo fanno per mestiere, non per verità: fingono modestia per vestire meglio la loro vanità. Parlano di profondità senza averne mai visto il fondo, si mettono accanto all’Assoluto come ci si mette accanto a uno specchio: non per perdersi, ma per ammirarsi. E il pubblico applaude. Ma chi ha conosciuto la fatica del mestiere, chi sa cosa significa studiare, dubitare, ricominciare ogni giorno, li riconosce e tace, perché non c’è bisogno di smascherarli: basta mettersi ancora una volta al servizio di quell’idea di perfezione silenziosa, inattingibile e vera, che ogni giorno ci chiede di essere più profondi, più rigorosi, più onesti. L’uomo davvero grande si riconosce nella capacità di sottrarsi allo sguardo compiaciuto del mondo, di continuare a studiare, interrogarsi, tremare davanti alla bellezza e alla verità.

Chi è artista e formatore, questa differenza la conosce bene. L'ha vista ogni giorno, nei giovani che ha formato e nei colleghi che ha incontrato: chi cerca davvero la perfezione lotta, si mette in discussione, tace, studia e ristudia. Chi la finge, si compiace e spesso si racconta come già arrivato. È l’eterno contrasto tra l’apparire e l’essere.



Orchestre ieri e oggi

Rispetto a quand'ero studente, oggi le orchestre sono, sotto il profilo tecnico, a un livello straordinario. L’evoluzione dell'insegnamento strumentale, l’accesso illimitato al repertorio grazie alla discografia e alla rete, l’omogeneizzazione degli standard esecutivi a livello internazionale hanno portato a un’eccellenza diffusa. Le orchestre leggono tutto, suonano tutto, e lo fanno con una rapidità e una precisione un tempo impensabili.

In questo scenario, la figura del direttore d’orchestra non è più (se mai lo è stata) quella di un “metronomo umano” o di un sorvegliante di ingressi e dinamiche. Le orchestre non hanno bisogno di chi batte il tempo con insistenza o moltiplica i gesti per timore di non essere compreso. Hanno bisogno, invece, di interpreti dotati di una visione: direttori capaci di immaginare e proporre un'idea musicale forte, coerente, ispirata — e soprattutto di trasmetterla con autorevolezza e chiarezza in tempi spesso molto brevi.

È proprio questo il punto cruciale: la capacità del direttore non sta tanto nell’offrire molte indicazioni, quanto nell’illuminare in pochi gesti — e con le parole giuste — una direzione interpretativa riconoscibile, condivisibile, interiorizzabile. Il gesto, allora, non è più solo tecnico, ma carico di significato: evoca un fraseggio, plasma un carattere, suggerisce un suono.
Tutto ciò, però, non può nascere dal nulla. Richiede una preparazione immensa, profonda, stratificata. Non solo nello studio della partitura, ma nella conoscenza stilistica, nella cultura generale, nella consapevolezza storica e filosofica della musica. È un processo che si costruisce nel tempo, con l’ascolto, l’esperienza e, soprattutto, con la riflessione.


Jascha Horenstein

Le nuove generazioni, purtroppo, si trovano spesso a lottare contro un ambiente di fruizione musicale sempre più frammentato, istantaneo, dominato da ascolti “mordi e fuggi”. La velocità del nostro tempo rischia di produrre interpreti superficiali, abituati a “saltare” da un autore all’altro, da un’estetica all’altra, senza assimilare davvero nulla in profondità. Ma la musica non si improvvisa. Un’interpretazione autentica nasce da un percorso lento, da un’urgenza interiore che si nutre di studio, silenzio e tempo.

Per questo motivo, oggi più che mai, il direttore d’orchestra dovrebbe essere non solo un tecnico sopraffino, ma un pensatore musicale. Un artista consapevole, capace di incarnare e comunicare una visione e di risvegliare, con questa visione, l’intelligenza e la sensibilità dell’orchestra. Solo così l’esecuzione potrà elevarsi a vera interpretazione, e non restare una semplice (per quanto impeccabile) lettura.

Pensieri sull’inutilità di molti allestimenti lirici contemporanei.


In tempi recenti si è affermata nella regia lirica una tendenza sempre più invadente: l’ossessione per l’attualizzazione forzata. Sembra che molti registi, anziché interrogarsi sul senso profondo dell’opera, sulla sua drammaturgia musicale e sulla visione dell’autore, sentano il bisogno impellente di piegarla a ideologie, estetiche e costumi dell’oggi, spesso del tutto estranei al mondo poetico ed etico in cui quell’opera è nata.
Il risultato è un cortocircuito espressivo. Le passioni universali che animano il teatro musicale – l’amore, la gelosia, l’ambizione, il dolore, la vendetta, il destino – vengono ridotte a semplici pretesti per denunciare fatti di cronaca, per insinuare parallelismi politici grossolani o per ostentare una presunta modernità che, in realtà, invecchia nel giro di una stagione.
Collocare una Traviata in una sala d’aspetto di un aeroporto, ambientare Rigoletto in una periferia urbana da fiction televisiva, trasformare Don Giovanni in un magnate post-capitalista in giacca firmata e sneakers non aggiunge nulla – e spesso toglie molto – all’opera. Sono scelte che, nella loro pretesa di originalità, finiscono per tradire lo spirito stesso della partitura, del libretto e della forma teatrale in cui l’opera si compie.


Peggio ancora, quando il gioco dell’attualizzazione diventa propaganda, e il palcoscenico lirico – che dovrebbe essere luogo di immaginazione, sublimazione e confronto umano profondo – si riduce a megafono di ideologie del momento, la distanza con l’opera d’arte diventa siderale. Si rompe l’equilibrio tra verità teatrale e convenzione, tra parola cantata e gesto scenico, tra tempo storico e tempo drammatico. E con esso si spezza anche il patto con il pubblico, che spesso – nonostante tutto – continua a cercare in teatro un’esperienza di bellezza, verità e trascendenza, non un editoriale mascherato da spettacolo.
Non si tratta, sia chiaro, di invocare il museo, la ripetizione sterile o la fedeltà cieca alla tradizione. Al contrario: il teatro d’opera ha sempre vissuto grazie alla capacità di rigenerarsi, di parlare al presente, ma sempre rispettando la coerenza interna dell’opera e il linguaggio musicale che la sostiene. Un grande regista sa ascoltare la musica, sa leggere tra le righe del pentagramma, sa far emergere ciò che l’opera dice senza bisogno di forzarla. È quando il regista impone a priori una propria agenda sull’opera – incurante del suo DNA profondo – che nasce l’inutilità, o peggio, l’arbitrio.
L’opera non ha bisogno di travestimenti per essere attuale. Le grandi opere lo sono da secoli, proprio perché parlano al cuore dell’uomo, non alla contingenza della moda. Ascoltiamole, rispettiamole, serviamole: saranno loro a parlarci dell’oggi, molto meglio di quanto possa fare un costume contemporaneo posticcio o un riferimento politico didascalico.

lunedì 24 marzo 2025

RESPIRATE!

La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere

(Plutarco)


Il percorso di apprendimento della musica e di uno strumento è molto più che l'acquisizione di abilità tecniche o la fedele riproduzione di spartiti. È, nella sua essenza, un microcosmo dello sviluppo umano, un percorso lungo il quale le facoltà del pensiero, della percezione e della volontà sono man mano raffinate e armonizzate. Comprendere lo studio come un processo di profonda coltivazione umana significa risvegliare lo scopo sacro della musica stessa: non come intrattenimento, non come sfida sociale, ma come ponte tra ciò che è terreno e ciò che è senza tempo.


Nei primi anni di vita, gli esseri umani imparano prima attraverso l'imitazione, poi attraverso il rispetto e la fiducia nella guida, e solo in seguito attraverso lo sviluppo di un giudizio indipendente. Allo stesso modo, un giovane musicista inizia imitando il suono, il gesto e il carattere. Man mano che lo sviluppo progredisce, il musicista cerca la direzione di un'autorità di fiducia, che sia un insegnante, una tradizione o la voce del compositore stesso. Giunto alla maturità, avrà la responsabilità dell’interpretazione, momento specialissimo dove le decisioni non nascono più dall'ego ma dalla convinzione interiore allineata con la verità della musica.


Questo ritmo triplice (imitazione, riverenza, autonomia) rispecchia l'arco di ogni effettiva crescita artistica e personale. Gli strati più profondi di comprensione e sfumatura saranno perduti se un musicista interromperà questa evoluzione naturale insistendo prematuramente sull’espressione autonoma. Una frase non è veramente "posseduta" a meno che non abbia attraversato queste fasi di assorbimento, trasformazione e sintesi.


L'atto di suonare o dirigere l’orchestra coinvolge l'intero essere umano. Pensiero, sentimento e volontà non sono categorie astratte: si manifestano vividamente in ogni momento di impegno musicale. Il pensiero vive nella struttura: forma, fraseggio, modulazione, contrappunto. Il sentimento respira nel tono, nell'equilibrio, nel contrasto dinamico e nel silenzio. La volontà appare nel gesto, nell'attacco, nella coordinazione fisica e nel ritmo. La vera arte risiede nella loro integrazione. L'eccessiva enfasi sul pensiero crea esecuzioni cerebrali, senza vita e di sovente sconnesse. L'emotività eccessiva, staccata dalla struttura, porta al sentimentalismo. La volontà grezza, non plasmata dal pensiero e non animata dal sentimento, si esprime in un'esibizione meccanica. Solo la loro armonia apre la porta alla viva interpretazione.


Il mondo attuale tende a sopravvalutare la cognizione a spese delle altre due forze. L'analisi tecnica è elogiata, le competizioni premiano l'accuratezza e la chiarezza e ai giovani è spesso insegnato a pensare più che a percepire e sviluppare emozioni corrette. Tuttavia, nell'atto vivente della musica, il pensiero è l'elemento più fragile, perché non agisce da solo. Deve essere infuso di sentimento per radicarsi ed espresso attraverso la volontà per prendere forma. Per questo motivo è importante e necessario, direi vitale, esercitarsi non solo sulle note scritte in partitura, ma anche sulla coltivazione dell'immaginazione e sulla liberazione della volontà.


L'immaginazione non è fantasia. È la facoltà attraverso cui l'artista percepisce la possibilità. Inizia con il potere di immaginare interiormente come potrebbe suonare la musica prima di essere suonata. L'immaginazione è la fonte invisibile del suono, dell’intensità, dell’umore e dell’atmosfera. Attinge a realtà future, non solo ad esperienze passate. Esercitare l'immaginazione significa sedersi di fronte alla partitura come esecutori di istruzioni e scultori di suoni viventi. Non ci si deve chiedere: "Come suonerei correttamente questa nota?", ma piuttosto: "Quale suono desidererei ardentemente far nascere qui?"


La volontà, nella sua forma pura, è silenziosa e duratura. Non è testardaggine o spinta di energia, ma la determinazione invisibile che torna al banco, sempre più, per ascoltare, affinare e costruire. Ogni gesto autentico nel suonare o dirigere l’orchestra è un atto morale, un'incarnazione della chiarezza interiore. Se un gesto nasce dalla fretta o da uno sforzo disconnesso, il suo carattere mancherà di integrità, ma porterà verità soltanto  se nato dalla volontà, quindi guidato dall'ascolto interiore e plasmato dalla chiarezza dell'immaginazione.


La pratica e l’esibizione continua, non è una ripetizione fine a se stessa. Non è l'accumulo di ore, ma l'allineamento consapevole del nostro corpo, della nostra anima e del nostro spirito per potere ottenere una visione sana. Ogni momento è un'opportunità per sintonizzare se stessi e per ricalibrare l’equilibrio, il ritmo e la quiete interiore. Ciò significa non solo evitare errori, ma coltivare il giusto stato profondo. Si può eseguire una singola frase musicale cento volte, ma non si otterrà nulla di significativo se lo spirito sarà assente. Se si studia con riverenza e concentrazione anche una volta, si mette in moto qualcosa che continuerà a lavorare interiormente oltre il momento e resterà negli anni a venire.





La respirazione è fondamentale. Nel corpo umano, il respiro è il ponte tra il sistema nervoso e il sangue, il ponte tra la coscienza e la volontà, tra la riflessione e l'azione. Anche la musica è fatta di respiro. Fraseggio, tempismo, articolazione e ritmo sono tutte espressioni del respiro interiore ed espiratorio. Se si trattiene il respiro, la musica diventa rigida. Se si ignora il respiro, la vita della frase crolla. Respirare musicalmente significa collegare la pulsazione del brano con quella personale e oltre a ciò, con il grande ritmo della vita stessa.


Inoltre, il riposo e il sonno regolare svolgono un ruolo nascosto ma vitale nel processo artistico. Quando il corpo dorme, la mente cosciente abbandona la sua presa e iniziano processi più profondi. La comprensione musicale spesso nasce non durante la pratica ma nel silenzio, durante il sonno, i sogni, le passeggiate e i momenti di quiete. Proprio come un bambino deve crescere attraverso l'istruzione, il riposo e l'integrazione, l'intuizione musicale deve essere lasciata emergere piuttosto che forzata.


Il compito dell'artista non è impressionare o dominare, ma servire. Questo servizio non è servitù, ma devozione. Quando serve la musica, il musicista diventa più umano e più sveglio. L'ego non si dissolve nella passività, ma nella riverenza attiva. Non ci si "esprime", ma si permette alla musica di passare attraverso se stessi, purificata e chiarita. Questa non è umiltà come debolezza, ma come forza: la forza di ascoltare, aspettare e agire con precisione e libertà interiore.


In definitiva, l'arte musicale non è separata dall'arte di vivere. Le stesse forze ci plasmano: gli stessi ritmi che guidano il fraseggio guidano le nostre relazioni. Lo stesso respiro che anima un passaggio anima il cuore. Un musicista che suona davvero è un essere umano che si forma di nuovo ogni giorno. Questa è l'essenza dello studio della musica: non la padronanza di uno strumento o, nel caso del direttore d’orchestra di una gestualità raffinata, ma la perfezione e l’equilibrio del mondo interiore. Tutto, allora, vivrà.

domenica 26 gennaio 2025

Direzione d'Orchestra Artificiale


Siamo ormai tutti consapevoli che la caratteristica dell'intelligenza artificiale è quella di non possedere pensieri analogici nel senso umano del termine. Il modo di elaborare le informazioni si basa su modelli matematici e reti neurali che permettono di comprendere e generare risposte, ma che ovviamente non funzionano allo stesso modo del pensiero analogico umano.

Il pensiero analogico caratteristico degli esseri umani implica la capacità di stabilire connessioni e similitudini tra concetti apparentemente differenti, utilizzando metafore e analogie tese a comprendere nuove situazioni e a sviluppare sentimenti. L'IA può analizzare e confrontare informazioni, ma lo fa attraverso specifiche elaborazioni computazionali, non attraverso il processo intuitivo e creativo proprio degli esseri umani. Può certamente aiutare a esplorare concetti, fare ragionamenti comparativi e trovare somiglianze tra diverse idee, principalmente in ambito scientifico, ma questi processi sono il risultato di rigidi algoritmi e di un addestramento su grandi quantità di dati, non di un vero pensiero affine, analogico e quindi spontaneo.

Soltanto il cervello dell'uomo può sviluppare analisi di astrazioni o ricerca di connessioni stimolanti tra le diverse informazioni ricevute durante il periodo del suo più o meno lungo apprendimento e della sua educazione, trasformando il pensiero in quella che tutte le culture, da sempre, hanno definito come "anima". Di certo, quest'ultima non è descrivibile, essendo essa stessa una pura astrazione divenuta concetto e trasformatasi in percezione intima. Per secoli, l'uomo ha condiviso o subito convenzioni sociali che ne hanno plasmato i comportamenti, nel bene e nel male. Nonostante la generale brevità della vita fisica e degli ovvi disagi che riguardavano tutti, disgraziati e potenti, l'umanità è riuscita a sviluppare idee straordinarie e realizzarle in ambito scientifico e artistico, tutte attraverso lo sviluppo di grandi intuizioni o soltanto grazie a semplici ed incredibili fantasie letterarie e sensazioni personali. 

Col nuovo secolo, dapprima con l'ingesso graduale del web in tutte le case ed improvvisamente con lo sviluppo esponenziale dell'IA, la capacità di sviluppare un pensiero autonomo importante e delle sue relative emozioni è molto diminuito e continuerà a diminuire. La facilità di ottenere risposte e di conseguenza un'incapacità graduale di sviluppare un'importante opera di ricerca personale che non sia esclusivamente un accumulo gratuito di informazioni, ha contribuito a diminuire lo scambio emotivo fra individui e l'elaborazione sensibile di una parte del pensiero, quella che trasforma le nostre intuizioni in comportamenti fisici vitali e più o meno complessi e fondamentali: un semplice gesto, un ammiccamento, uno sguardo, una carezza, un abbraccio o un bacio.  Una diminuzione pericolosa dell'empatia.

Gli ambiti nei quali oggi l'uomo si muove con disinvoltura grazie alla sua immedesimazione coi propri simili sono molto diminuiti. Il contatto fisico giornaliero col prossimo è riservato a poche fortunate categorie, spesso le più semplici a livello sociale o quelle dedite ad un rapporto di vicinanza continuativo, come ad esempio chi opera nell'ambito educativo. Queste considerazioni valgono soprattutto per le variegate società del nostro mondo "occidentale" e decisamente meno per altre che ai nostri occhi continuano ad apparire meno evolute. L'abbandono di molte attività fisiche e manuali a favore di altre più intellettuali ha contribuito all'impoverimento di molti dei nostri gesti quotidiani, quelli più facilmente intellegibili e dei loro stretti sottintesi. 

In ambito artistico-musicale c'è la singolarissima attività del direttore d'orchestra, un tempo grande creatore di atmosfere, depositario di verità quasi assolute, a volte demone spietato o in altri casi spirito angelico, ma sempre molto manifesto nella sua opera e palese nelle intenzioni. La grandezza di certi direttori si è manifestata spesso in concomitanza dell'unione con orchestre normali, se non mediocri e comunque bisognose di allenamento. In quei casi, ha potuto manifestare le proprie abilità tecniche e di persuasione, talvolta accolte e gradite, talvolta sopportate per necessità e intimamente rifiutate. Di certo, l'azione di costoro si è rivelata sotto molti aspetti speciale, in grado di modificare nel profondo il pensiero e l'opera dei musicisti. Il criterio analogico col quale operavano era evidentissimo. Un giorno, durante una prova con l'orchestra della NBC, Arturo Toscanini non riusciva ad ottenere la leggerezza che un brano richiedeva. Ad un certo momento estrasse il fazzoletto candido dal taschino della giacca e lo lanciò in aria. Esso cadde silenzioso fra gli orchestrali, aprendosi come un paracadute. In un secondo riuscì a farsi intendere mediante un pensiero semplice accompagnato da un'altrettanta semplice azione, entrambi derivati dall'unione perfetta di un concetto razionale e di uno totalmente fantasioso. L'effetto fu assicurato, senza ulteriori richieste verbali o contenimenti gestuali.


Negli ultimi decenni, complici i numerosi fattori che hanno diminuito la nostra percezione silenziosa della vita e la continua ricerca di certezze, nonché l'urgenza di ottenere un'apparente e appagante perfezione, i musicisti si sono sempre più affidati alla tecnologia affinché la propria opera fosse in linea coi canoni estetici dei tempi e soprattutto non fosse oggetto di critiche. Il dovere di riascoltarsi quasi in tempo reale ha esacerbato l'autocritica a senso unico ed ha consumato l'immediatezza dell'esecuzione musicale, condannando senza appello ciò che è nella natura umana: la possibilità di sbagliare. 

Esistono errori ed errori. In filosofia, l'errore indica qualcosa di falso che appare vero, o viceversa, nel campo a cui si riferisce il giudizio o la previsione e che quindi genera una sostanziale incompatibilità. L'errore può essere di natura pratica, quando si violano norme morali o principi che rendano efficace l'azione, o di natura dottrinale quando si giudica vero ciò che è falso o falso ciò che è vero. Come in fisica, essi possono essere anche di natura sistematica ed essere dovuti a varie cause dipendenti dal criterio di misurazione e dalla capacità di analisi dell'osservatore. Come nella quotidianità, se uno strumento di misura non funziona, come ad esempio una bilancia, sarà impossibile ottenere il peso esatto di un oggetto, e la mancanza di abilità o di conoscenza dello strumento da parte di chi effettua la misurazione e la valutazione del risultato, sia per caso o per eventuale tornaconto personale, causerà un giudizio errato o corrotto. In questo caso è dato assenso ad un giudizio realizzando un collegamento tra volontà e intelletto. L'errore riguarda tutta la nostra esistenza nel sapere e nell'agire, laddove si incontrano concetti fondamentali come opinione, colpa, dolore e felicità. La manifestazione spontanea di questi sentimenti e di queste sensazioni dovrebbe essere il principale elemento per la garanzia della libertà di espressione dell'individuo. Nel caso del particolarissimo ruolo del direttore d'orchestra, musicista che opera senza contatto fisico con lo strumento ma soltanto attraverso segnali del corpo, ultimo passaggio per la trasmissione dell'idea musicale già formata, la collaborazione con musicisti affini per sensibilità e passione è fondamentale.

Sfortunatamente oggi ciò avviene raramente, per il semplice motivo che l'alto standard qualitativo raggiunto dalle orchestre e la brevità del tempo a disposizione per allestire le esecuzioni, costringe ad ottimizzare i tempi e i modi, forzando i direttori ad accontentarsi di esecuzioni già nel DNA delle orchestre. Intendo dire che per riuscire a modificare le intenzioni di musicisti navigati, che hanno già eseguito decine e decine di volte un repertorio, sarebbero necessari tempi lunghi e non più in linea con l'economia richiesta dal mondo della musica. Soprattutto, sarebbe fondamentale la collaborazione emotiva dei singoli musicisti, certamente non così diffusa.

Nella veste di musicista navigato e di insegnante appassionato so di operare in tempi più facili di quelli da me vissuti in gioventù, per via dei molti agi oggi alla portata di tutti ma decisamente più difficili per via dei continui cambiamenti in atto e dei molteplici condizionamenti tecnologici che hanno modificato i comportamenti emotivi generali ed ai quali è difficile stare al passo. Smuovere emotivamente un giovane all'inizio di questo singolarissimo universo estetico, che richiede un'infinità di conoscenze ma soprattutto sapienza nel suo significato più vasto, è un'impresa che richiede attenzione infinita verso il singolo e l'abbandono totale di quei parametri oggettivi adatti più all'ambito scientifico che a quello artistico. Se dovessi accontentarmi di impartire le banalità tecniche da tutti conosciute, la mia opera sarebbe totalmente inutile. Nulla rimane come prima, per cui non mi meraviglierei che a causa di futuri avvenimenti contrari alla natura umana che oggi procurano a tutti noi grande stupore e spasmodica attesa, tornerà necessario, nonché indispensabile, un approccio alla vita in generale più lento e più ponderato. In questo senso l'IA, se sapremo tenerla a bada da pericolosissime auto-evoluzioni, potrà garantirci quel tempo speciale a nostra disposizione.

Bertrand Russell, il celebre matematico e filosofo inglese, è risaputo che non amasse il lavoro. Nel suo “Elogio dell’Ozio” del 1932, dichiarò che in una società più efficiente, ognuno avrebbe potuto lavorare solo qualche ora al giorno e il resto della giornata dedicarlo ad altre attività particolari come la scienza, la pittura, la scrittura. A mia memoria non citò la musica, che in gioventù fu per lui una sorta di tormento, sembra a causa degli obblighi imposti da un'acida insegnante...


martedì 5 novembre 2024

L' ebbrezza dell'inutile

Dopo aver vissuto decenni vivacissimi ma tutto sommato calmi e non nevrastenici, posso dire con un po' di tristezza e fastidio che oggi la frenesia ci circonda violentemente. Tutti noi viviamo sommersi da un diluvio incessante di contenuti culturali e non c'è giorno che non compaiano decine di nuovi libri sugli scaffali delle librerie o vengano proposte nuove ed inutili serie TV e film che debuttano sulle piattaforme di streaming e al cinema, album musicali di ogni genere e qualità che sgomitano per conquistare la nostra attenzione già frammentata. Il mondo indefinibile della cultura è diventato una catena di montaggio impazzita, che produce senza sosta e non si domanda se c'è davvero qualcuno dall'altra parte davvero in grado di assorbire questa valanga di stimoli. Sono soprattutto gli artisti ad essere intrappolati in questa spirale produttiva, perché il mercato li spinge ad esibirsi con ritmi sempre più serrati, a mantenersi sempre giovanili, presenti e rilevanti. Un romanzo di due mesi fa è già considerato vecchio, un'interpretazione dell'anno scorso è dimenticata e diventa mito. Questa pressione alla produzione ed esibizione continua ha definitivamente eroso il tempo necessario per la riflessione, per la maturazione delle idee, per quel processo lento e tutto sommato inefficiente che è la creazione artistica comunemente intesa. Intanto noi, dall'altra parte, ci ritroviamo paralizzati dall'abbondanza dell'inutile.


I più volonterosi fra i frequentatori degli ambienti intellettuali accumulano liste infinite di libri da leggere, serie da vedere, musica da ascoltare, liquida o no. In un certo senso, si portano addosso un senso di colpa culturale cronico, come se fossero sempre in debito nei confronti di qualche opera non ancora consumata con gli occhi o con le orecchie. Non esiste più quel tempo di sedimentazione per ciò che leggiamo o ascoltiamo e non permettiamo a un'opera di riecheggiare dentro di noi. Questa accelerazione costante sta impoverendo i creatori e i fruitori. Gli artisti sono costretti a produrre prima di essere davvero pronti e il pubblico consuma senza davvero assaporare. La cultura è la vittima prediletta della logica del consumo compulsivo, della necessità di generare costantemente novità per alimentare un mercato globale insaziabile. È diventato pressoché impossibile riconsegnare ai creatori il tempo per costruire senza l'assillo della scadenza, e a noi stessi il permesso di poter scegliere con cura, di saltare qualcosa, di rimanere indietro rispetto al flusso incessante delle novità. Forse, dovremmo accettare che questo fiume in piena di contenuti multiforme, questa nuova condizione umana si esaurisca finendo nel deserto. È davvero difficile opporsi alla corrente o lasciarsi trasportare passivamente: si tratta di imparare a galleggiare e vivere tra i frammenti di questo insuccesso secolare. La cosa più ardua sarà accettare di essere tutti scopritori del presente che operano scavando tra infinite stratificazioni di oggetti e soggetti, perennemente alla ricerca di qualcosa che (per ora) non esiste più: il tempo lungo della creazione, il respiro dell'arte, la sedimentazione lenta del significato.



venerdì 18 agosto 2023

Musica ed empatia

Molti musicisti tecnicamente abili con lo strumento, la voce o la bacchetta, nel momento in cui salgono sul palco e si trovano ad interagire con altri musicisti e col pubblico mostrano improvvisamente i limiti della loro arte. Diciamo che subito si dimostrano "bravi ma antipatici". Qualcosa di importante non accade, perché l'essere umano non riesce a trasmettere quel "quid" indispensabile per relazionarsi con chi ha di fronte. Diciamo che li si può genericamente definire "poco empatici", per via della mancanza di compassione nel senso più prossimo all’etimologia, che significa "patire insieme".

Si sa che l'empatia è la capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri, mettendosi nei loro panni e comprendendo le loro prospettive. È certamente un aspetto importante delle nostre relazioni umane, perché consente di stabilire connessioni significative con il prossimo e rispondere in modo compassionevole alle esigenze emotive. Però, quando l'empatia è a senso unico può generare conflitti e portare a conseguenze negative per il benessere interiore e la vitalità di una persona, perché la reciproca capacità di connettersi emotivamente con gli altri è importante per una vita soddisfacente e significativa. Le persone che mancano di empatia possono avere difficoltà a comprendere appieno le esperienze degli altri, a riconoscere le loro emozioni e, soprattutto, a rispondere in modo appropriato. Questo solipsismo può portare a difficoltà nelle relazioni interpersonali, ad una mancanza di comprensione reciproca e persino ad un pernicioso isolamento sociale.



Chi fra noi musicisti, soprattutto insegnanti, non ha assistito almeno una volta nella vita a situazioni simili? Alcune persone, artisti o no, potrebbero essere naturalmente meno predisposte a causa della loro personalità o delle loro esperienze di vita, mentre altri potrebbero sviluppare una mancanza di empatia a causa di fattori traumatici precoci o disturbi psicologici.

La mancanza di empatia non implica automaticamente la "morte dell'anima", poiché le persone possono sviluppare una varietà di meccanismi di adattamento e strategie per affrontare le sfide emotive che hanno di fronte. La psicologia umana è complessa e molteplice, e ci sono molti fattori che contribuiscono alla formazione dell'identità e al benessere di una persona.
Quando mi è capitato, e tuttora accade, di interagire con persone e musicisti che sembrano mancare di empatia, ho cercato di comprendere le prospettive e le ragioni che si celano dietro il loro comportamento, ma quando mi accorgo che ciò può avere un impatto negativo sulla mia vita o su quella di chi mi sta vicino, so bene che il supporto di chi ha la chiave per trattare la salute mentale, o meglio dell'anima, potrebbe fornire un orientamento appropriato, certamente mai risolutivo.
Alla fine, parlo per esperienza personale, le persone meno empatiche conosciute in vita, sono quelle che definirei più sospettose, attente, sempre guardinghe, tendenzialmente invidiose, sofferenti e prigioniere di un cliché.
Quelle più fiduciose si mostrano sempre per ciò che sono: libere.

venerdì 4 agosto 2023

Le audizioni, ovvero come imparare presto a vivere senza la musica, ma trovando un impiego grazie alla musica.

 


Qualsiasi giovane strumentista che abbia avuto occasione di affrontare un'audizione o un concorso in un'orchestra, oltre ad essersi trovato nella situazione stressante di uno studio che per settimane, se non mesi va ben oltre l'impegno richiesto, al momento dell'esecuzione di fronte alla commissione o addirittura all'orchestra intera, pur sapendo di avere dato il massimo si ritrova di sovente non idoneo. Di certo ciò non accade per incapacità del singolo giovane musicista, bensì a causa dei parametri che da tempo sono utilizzati per definire le capacità tecniche e poi musicali. Per cui, ad un giovane violinista che fa l'audizione per violino di fila in un'orchestra da camera dove solitamente il repertorio non va oltre Mendelssohn, sono richiesti passi dal Don Juan di Strauss o dal Romeo e Giulietta di Prokofiev. Oppure capita che per il posto di corno sia richiesto il Terzo movimento della Pastorale di Beethoven eseguito a folle velocità ma palesemente anti-musicale, condito pure dal solo della Settima di Bruckner. Poi accade (e non è raro) che grazie al superamento di virtuosismi inutili, il candidato si ritrovi assunto e al primo appuntamento con una sinfonia di Brahms non sappia dove mettere le mani, per il fatto che in vita sua non ha frequentato profondamente quel repertorio ascoltandolo, approfondendolo sentimentalmente e creandosi un'estetica personale e particolare che con la tecnica strumentale non ha nulla a che fare.

C'è un passo nella Terza Sinfonia di Brahms che richiede un rallentando non scritto, ma che fa parte del DNA di quella musica. Ci sono attese, respiri e intenzioni sottintese che a 25 o 30 anni non puoi non conoscere. Se non conosci ciò, significa che non sei mai stato innamorato della Musica ma soltanto della tua soddisfazione muscolare. Poi accade che si innesti una spirale di errori interpretativi che passano dal direttore allo strumentista, al pubblico e così via, sottraendo alla Musica quella parte che le è propria e immutabile, a prescindere dalla sua più o meno corretta esecuzione tecnica. Poi il tempo passa e, a scapito della Musica, qualcosa si impara.
Ricordo che qualche decennio fa Gianandrea Gavazzeni, in una pausa durante le prove di Bohème alla Scala, mi disse: "Eh, vede caro Serembe! Qui è pieno di giovani che suonano benissimo, hanno un'ottima tecnica, ma NON CONOSCONO BOHÈME, non la conoscono!"  
Alla fine, in questi vent'anni di internet che ha orribilmente rimbecillito l'umanità, la mancanza di frequentazione profonda e di dedizione del tempo richiesto per l'ascolto esteriore ed interiore, ci ha regalato soltanto orchestre che suonano tutte allo stesso modo, magari in modo impeccabile, ma noiose, molto aggressive nel modo di suonare e soggette a ritmi che richiedono ai musicisti gli antidepressivi o i calmanti, sempre presenti nella valigetta del Medico accompagnatore durante le tournée. Calo un velo pietoso sulle orchestre come i Berliner che suonano con un microfono posto di fronte ad ogni esecutore. Affermare che sia ridicolo è insufficiente, ma non trovo altra espressione aulica adatta a chi legge.



sabato 3 settembre 2022

INTERVISTA - settembre 2022

TRACCE - Mensile, settembre 2022

Intervista di Enrico Raggi







giovedì 16 giugno 2022

La bellezza ci insegna

Chiunque viva quella particolarissima e quotidiana situazione di condivisione della bellezza, nelle sue più svariate forme e nei momenti di massima suggestione, spesso si ritrova coinvolto in stati di ammirazione e stupore indescrivibili. Si tratta di stati emozionali personali e totalizzanti, per i quali e nei quali ognuno trova una speciale risposta. L'oggettività della bellezza è l'unica sulla quale siamo tutti d'accordo, per il fatto che essa scaturisce dai valori e dal tempo della nostra cultura e solitamente ci dona un senso di appagamento e benessere. A volte è compartecipe degli stati più drammatici della nostra vita ed è proprio grazie al contrasto con quei momenti che troviamo in essa la sua massima capacità di persuasione.

In musica, la più fragile delle arti che necessita di un interprete per essere recepita e compresa, i momenti di estasi e angoscia sono complementari. Per alcuni autori come Beethoven e Schubert, solo per fare due esempi, la scelta delle tonalità e quindi del colore strumentale, è fondamentale per ottenere il massimo risultato espressivo. Sono momenti specialissimi dove l'interprete si trova di fronte alla ben nota "domanda senza risposta", o meglio ad una risposta che non prevede domanda in quanto già completa. Esempi beethoveniani sono le tonalità di Re bemolle e La bemolle maggiore, punte di massima intensità dove una luce accecante erompe come un senso di verità assoluta. Esempio lampante il terzo movimento della Nona Sinfonia. In Schubert invece, è l'ombra che fa da padrona. La luce è sempre presente, ma è come se desiderasse rimanere nascosta, come il sole dietro le frasche di un bosco. Il secondo movimento della Sinfonia "Incompiuta" è ricco di questi magici istanti. Ecco, questi sono i momenti musicali che personalmente vivo sempre in modo positivo, anche se contrastante. Beethoven mi dà la certezza e Schubert mi incute il dubbio. Entrambi mi fanno domande ed entrambi mi danno risposte. 

Ho trascorso la vita ad insegnare e tuttora l'insegnamento è la mia più grande passione e fonte di sostegno affettivo. Molti anni fa, lessi uno scritto di Monsignor Gianfranco Ravasi che ricordava le parole del celebre pensatore francese Roland Barthes: "Vi è un'età in cui si insegna ciò che si sa, ma poi ne viene un'altra in cui si insegna ciò che non si sa e questo si chiama cercare". Egli concludeva che "non si insegna mai ciò che si sa ma ciò che si è". Ecco, quando si tratta di trasmettere il significato delle cose, oltre che la loro oggettività, questa condotta da parte del docente è fondamentale. Soprattutto oggi, di fronte a una gioventù rapidissima nel consumare i sentimenti e le emozioni ma restia a condividerle, certe volte è un'impresa ardua riuscire a condividere le proprie sensazioni personalissime e sincere.

Dieci anni fa ho fondato l'Italian Conducting Academy di Milano e da allora molti giovani si sono avvicendati. Da qualche anno però, vedo con piacere che c'è un desiderio di ricerca personale precoce e ritengo che ciò sia molto dovuto ad uno stato di insoddisfazione verso un insegnamento musicale sempre più perfezionistico, direi proprio "digitale" dove l'elemento umano di empatia e simpatia è andato molto scemando, ma che è fortemente richiesto dall'ultima generazione di giovani artisti. Nel caso della Direzione d'Orchestra ciò si fa molto più sentire, in quanto lo strumento del direttore non è la tastiera del pianoforte, bensì l'insieme delle anime condivise che gli sono di fronte. Come far sì che un giovane possa acquisire competenze extra-musicali oltre che meramente tecniche? Ovviamente, qui entra in gioco la capacità di condivisione emozionale del maestro, che ha il faticosissimo e particolarissimo compito di salvaguardare l'unicità dell'allievo per renderlo consapevole che è un universo in miniatura non replicabile, rammentando sempre che tutti noi conserviamo l'indivisibilità di esso: il corpo e lo spirito. La fisicità della musica e la sua natura metafisica sono trascurate come elementi di unicità; insegnare soltanto la parte fisica è ovviamente molto più semplice, in quanto è tutto già stato sperimentato, decifrato, razionalizzato ed elaborato nei decenni, se non nei secoli. La natura metafisica della musica è invece qualcosa sempre in mutamento, perché muta col pensiero dell'uomo. Il problema è che l'uomo necessita di un pensiero e all'interno di esso c'è la parte razionale, logica, e quella irrazionale, ovvero più istintiva. Senza di essa è impossibile crearsi un percorso di intuizione che ci permetta di sviluppare un pensiero lontano dagli schemi tecnici così facili da acquisire e sempre a buon mercato. Il mio compito è anche, soprattutto, questo. Sviluppare l'individuo artista e non soltanto un semplice esecutore. Come aveva scritto Don Milani su un cartello della sua scuola di Barbiana, "I CARE".