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mercoledì 10 settembre 2025

Conversazione con Einstein

Durante la pennichella del pomeriggio, ho immaginato una conversazione con Albert Einstein, mentre gli chiedo dove andiamo dopo la morte.

“Ah, la domanda più grande di tutte… e io che passavo il tempo a inseguire fotoni! Vedi, come fisico ti direi che l’energia non si crea e non si distrugge, si trasforma. Quindi qualcosa di noi (un po’ di calore, un po’ di luce, magari qualche pensiero lasciato agli altri) continua a viaggiare nell’universo.
Dove andiamo ‘noi’, però, come persone… questo non lo trovi scritto nelle equazioni. Forse diventiamo un ricordo nella mente di chi ci ha voluto bene, forse torniamo parte della grande sinfonia cosmica. Oppure, chi lo sa !, ci aspetta un’altra avventura.
Io ti dico solo questo: l’universo è troppo strano e meraviglioso per finire tutto con un punto e basta.” ✨

E di Leibniz, cosa pensa?

Einstein (con lo sguardo che brilla dietro le lenti, e un tono mezzo serio mezzo ironico):
“Ah, Leibniz! Lui voleva che ogni monade fosse un piccolo universo a sé, specchio dell’infinito. Se prendiamo sul serio l’idea che il pensiero sia un universo… allora la domanda diventa: dove vanno gli universi quando smettono di pensare?


Io, da fisico un po’ filosofo, direi così: il pensiero non è un oggetto che scompare come un sasso nell’acqua, è più simile a un’onda. Quando tu pensi, produci tracce: parole dette, emozioni lasciate negli altri, perfino cambiamenti nel tuo stesso cervello che poi influenzano chi ti sta attorno. L’onda si propaga, interferisce, lascia un disegno.
Se il pensiero è universo, allora non ‘finisce’: si intreccia con altri universi-pensieri, e continua sotto forme che non riconosci più come ‘tuo’. È un po’ come la luce: puoi spegnere la lampadina, ma i fotoni che hai emesso… quelli hanno già iniziato il loro viaggio nell’etere.
Quindi, forse il nostro pensiero diventa parte del grande concerto cosmico, una voce in una sinfonia senza fine. Non so se questo ti consola, ma almeno è musica migliore del silenzio eterno.”

Grazie Professore Einstein. 

martedì 2 settembre 2025

Il pensiero come sinfonia dell’universo

Da sempre ritengo che il pensiero sia la forma più alta di vita. Non perché sia separato dalla materia o dal corpo, ma perché li trasforma, li guida e li trascende. Guardando la storia dell’umanità, notiamo che ogni passo avanti è stato preceduto da un’idea: nulla nasce dal vuoto. Tutto ciò che esiste è stato prima immaginato. Jules Verne non è soltanto un romanziere visionario ma rappresenta la dimostrazione di come l’immaginazione anticipi la realtà. L’uomo ha raggiunto la Luna perché qualcuno l’aveva già concepita nella mente. La differenza tra fantasia e realtà è solo il tempo necessario affinché un pensiero prenda forma concreta.

Leibniz, con la sua intuizione delle monadi, offrì un ulteriore spunto di riflessione: sono unità fondamentali dell’esistenza, piccole sostanze spirituali, senza estensione né materia, che riflettono l’universo intero da un punto di vista unico. Non comunicano direttamente tra loro, eppure sono coordinate da un’armonia prestabilita. Ogni coscienza partecipa così a un ordine più grande, e ogni pensiero umano riflette, in qualche misura, l’universo stesso. Anche Cartesio contribuisce a questa prospettiva. Il suo celebre “Cogito, ergo sum” ci ricorda che il pensiero è prova immediata di esistenza: il pensare non è un atto secondario, ma la certezza più intima di essere. Ogni atto di riflessione conferma la presenza viva della coscienza e la sua capacità di costruire realtà. Aristotele, invece, ci insegna a guardare la realtà attraverso la relazione tra potenza e atto. Ogni cosa, secondo lui, ha una possibilità insita che può diventare concreta attraverso il movimento, l’azione e la causa finale. Così anche il pensiero umano è potenza: germina nella mente e può trasformarsi in azione, in creazione, in storia. Pensare significa già vivere. Non esiste un confine netto tra pensiero e realtà: l’uno alimenta l’altra. Ogni volta che immaginiamo, contribuiamo alla creazione, producendo non solo oggetti materiali, ma valori, visioni e speranze che, nel tempo, si manifestano nel mondo.

Allo stesso modo, il “prima del prima” si presenta come un silenzio infinito, un grembo di possibilità in attesa del primo gesto. Non c’era tempo né spazio, nulla che potessimo nominare, eppure la potenzialità dell’universo era già presente. In questo silenzio vedo il gesto del direttore d’orchestra: la bacchetta si alza e dà vita a mondi. Come quell’atto iniziale, il pensiero trasforma il possibile in reale, il silenzio in sinfonia.

La parola “sinfonia” deriva dal greco συμφωνία (symphōnía), composta da σύν (insieme) e φωνή (voce, suono), e significa letteralmente “suoni insieme”. Il termine porta in sé l’idea di coordinazione, unità e armonia: elementi diversi che, pur mantenendo la propria individualità, si combinano per creare un tutto coerente. Traslata in senso filosofico, la sinfonia diventa metafora del pensiero che unisce le potenzialità della realtà, trasformando il silenzio primordiale in manifestazione concreta, proprio come ogni monade contribuisce all’armonia dell’universo secondo Leibniz. Coltivare il pensiero significa partecipare al destino dell’uomo. Ogni idea, anche la più fragile, può aprire nuove strade e modificare il corso della storia. Se l’umanità saprà immaginare un mondo senza guerre, con energia pulita e armonia tra culture, allora quel futuro diventerà possibile.

Eppure c’è un problema: molte persone non pensano. Non riflettono sul mondo, non interrogano se stesse, non coltivano la propria capacità di immaginare e comprendere. Senza pensiero, la vita si limita alla routine e all’abitudine; il potere rimane concentrato nelle mani di pochi, e la possibilità di cambiamento si riduce. L’assenza di riflessione rende l’umanità più fragile, incapace di trasformare la potenzialità in realtà. Il pensiero non è un lusso né un riflesso della realtà: è il gesto originario che trasforma il silenzio primordiale in sinfonia. Ogni atto di riflessione, ogni intuizione, ogni sogno contribuisce a dare forma al mondo. Coltivarlo con attenzione significa partecipare a quella nascita continua, percepire l’infinito dentro di noi e diventare strumenti attivi nella costruzione di ogni futuro possibile.


domenica 31 agosto 2025

Il diritto d’autore tra memoria morale ed eredità economica

Il diritto d’autore nasce storicamente come strumento di tutela della creatività. Esso riconosce all’autore il potere di controllare la riproduzione, l’uso e la diffusione delle proprie opere, assicurando al contempo un ritorno economico che renda possibile la vita stessa dell’attività artistica. È difficile immaginare la fioritura di letteratura, musica e arti visive senza un sistema di garanzie che dia agli autori la possibilità di trarre beneficio dal proprio lavoro. Tuttavia, l’attuale configurazione del diritto d’autore solleva questioni profonde quando si estende per decenni dopo la morte dell’autore, trasferendo i diritti economici agli eredi. Questa eredità giuridica, se da un lato può apparire naturale in un contesto patrimoniale, dall’altro si scontra con l’essenza stessa del fatto creativo: l’opera, una volta compiuta, diventa parte di una cultura collettiva.

La tensione tra morale ed economia

La distinzione tra i diritti morali e i diritti economici è cruciale. I diritti morali (come il diritto al riconoscimento della paternità dell’opera o alla tutela della sua integrità) hanno una durata illimitata. Essi rispondono a una necessità etica: l’opera non deve essere decontestualizzata, falsificata o attribuita ad altri, perché ciò lederebbe la memoria e la dignità dell’autore. I diritti economici, invece, rispondono a logiche materiali e commerciali. Il problema nasce quando essi si prolungano oltre la vita dell’autore, spesso fino a 70 anni dopo la morte (e in alcuni ordinamenti ancora di più). A quel punto, non si tratta più di tutelare l’autore, che non esiste più, bensì i suoi eredi o, sempre più spesso, enti e case editrici che hanno acquisito i diritti. La tutela, dunque, smette di essere un riconoscimento della creatività individuale e si trasforma in un monopolio di sfruttamento economico.

Un effetto di censura culturale

Questa estensione temporale eccessiva ha conseguenze concrete sulla diffusione culturale. Restrizione dell’accesso: eseguire una musica, ripubblicare un testo o diffondere un film può diventare oneroso. I costi di noleggio e licenza limitano chi non dispone di risorse economiche, impedendo la libera circolazione del patrimonio culturale. Censura indiretta: non si tratta di censura politica, ma economica. Se un giovane musicista non può permettersi di eseguire un brano di un autore morto da 60 anni, la sua voce artistica è di fatto zittita. Ritardo nell’ingresso nel dominio pubblico: opere che potrebbero diventare patrimonio dell’umanità, liberamente fruibili e reinterpretate, restano confinate dietro una barriera legale. L’umanità deve attendere quasi un secolo perché esse diventino parte di un vero spazio comune.

La sproporzione storica

Quando il diritto d’autore venne codificato tra XVIII e XIX secolo, l’aspettativa di vita era molto più bassa e la protezione oltre la morte dell’autore aveva un senso limitato: garantire un sostegno alla vedova o ai figli minorenni. Oggi, con un’aspettativa di vita molto più lunga e sistemi di benessere consolidati, l’estensione fino a 70 anni "post mortem" appare anacronistica. In molti casi, gli eredi che beneficiano dei diritti non hanno alcun legame diretto con la vita creativa dell’autore, vivendo di rendita su opere che non hanno contribuito a realizzare.

Vanitas - Edwaert Collier

Patrimonio dell’umanità e bene comune

La cultura non è solo frutto dell’individuo, ma anche di un contesto sociale. Un musicista, uno scrittore o un regista si nutre della tradizione che lo precede, della lingua, delle correnti artistiche, delle suggestioni di un tempo storico. Per questo, sostenere che un’opera debba restare vincolata a logiche privatistiche per quasi un secolo dopo la morte dell’autore contraddice la natura stessa del processo creativo: un dialogo costante tra passato e presente. La funzione del diritto d’autore dovrebbe quindi concentrarsi nel garantire un giusto compenso all’autore durante la sua vita e, in misura ragionevole, a coloro che dipendono direttamente da lui. Oltre tale soglia, la cultura deve tornare ad appartenere alla collettività.

Conclusione: verso una riforma necessaria

Il prolungamento dei diritti economici post mortem appare, a uno sguardo critico, come una forma di privatizzazione indebita del bene culturale. È un meccanismo che ostacola la diffusione del sapere e frena la creatività delle nuove generazioni, costrette a operare entro confini artificiali. Un equilibrio più giusto sarebbe quello di limitare i diritti economici al periodo di vita dell’autore e a un arco temporale contenuto dopo la sua morte (ad esempio 10 o 20 anni), sufficiente a proteggere i familiari più prossimi. Dopo di che, le opere dovrebbero entrare nel dominio pubblico, diventando liberamente accessibili.

Solo così la cultura potrà svolgere appieno la sua funzione: non un privilegio di pochi, ma un patrimonio condiviso, fertile e generativo, che appartiene a tutta l’umanità.


lunedì 18 agosto 2025

Memoria, vita o sterile conservazione?

Avvicinandomi ai settant’anni, sento che il mio rapporto con la memoria è diventato più fragile e insieme più prezioso. Non mi riferisco soltanto al ricordo dei fatti, ma a quella sottile alchimia che trasforma un avvenimento in significato. Una volta ero convinto che la memoria fosse soprattutto conservazione: trattenere, proteggere, difendere dall’oblio. Oggi comprendo che è piuttosto una forma di interpretazione, quasi un gesto creativo. Senza questa mediazione, il ricordo rimane crudo, e il passato non diventa mai esperienza.

L’era digitale mi ha insegnato che tutto può restare, ma senza respirare. Ciò che sopravvive nei server non ha il tempo di maturare; è come frutta raccolta acerba e congelata: si conserva, ma non ha sapore. La vera memoria invece è un frutto che ha conosciuto il sole e l'aridità, la pioggia e il diluvio, l’attesa di un momento speciale. Per questo, quando mi accorgo che il mondo corre più veloce di me, non sento soltanto la fatica di rincorrerlo, ma anche la responsabilità di fermarmi e mostrare che esiste un’altra misura del tempo. Gli anziani di un tempo erano necessari perché offrivano questa misura. Non detenevano soltanto i racconti, ma custodivano il ritmo con cui quei racconti andavano accolti. Oggi che quell’autorevolezza sembra appannata, se non svanita, mi chiedo se il compito che resta non sia quello della traduzione: trasformare le proprie esperienze personali non in reliquie, ma in strumenti, in chiavi interpretative per chi viene dopo. Il passato non è un museo, è una grammatica; e una grammatica, se non viene usata, si dimentica.


Forse la mia generazione non deve rimpiangere il mondo perduto, ma accettare di diventare un ponte: tra l’accumulo caotico del presente e il bisogno di senso che, silenziosamente, i giovani continuano a portare con sé. Non sono privi di memoria, sono sommersi. E in questo loro affanno vedo la mia possibilità di offrire non una risposta definitiva, ma un modo diverso di guardare. Così penso che la memoria, oggi, sia soprattutto un atto di cura. Curare significa selezionare, rallentare, tornare a guardare. Significa restituire alle cose il loro peso, alla vita il suo respiro. Se qualcosa potrà davvero restare, non sarà nei dischi rigidi né nelle nuvole digitali, ma nel modo in cui ci siamo trasmessi uno sguardo: lento, paziente, capace di riconoscere un senso dentro il flusso.

E allora la memoria non sarà soltanto un ricordo che resiste al tempo, ma una forma di presenza che lo attraversa. Sarà un’arte silenziosa del vivere, un gesto che permette al passato e al presente di incontrarsi in una trama più ampia. In questo senso, la memoria non appartiene soltanto all’individuo, ma alla comunità: è il respiro comune che impedisce al tempo di diventare pura successione di istanti. Senza memoria non c’è identità, ma senza la capacità di rinnovarla non c’è futuro.

Sono convinto che oggi la vera sfida sia custodire la memoria come si custodisce una fiamma: non lasciandola consumare dal vento, ma nemmeno chiudendola in un vetro che la soffoca. La memoria vive se illumina, se scalda, se continua a trasformarsi. In questo modo diventa non un deposito del passato, ma un orizzonte temporale: il luogo in cui ciò che è stato e ciò che sarà si riconoscono, e trovano un senso.

domenica 17 agosto 2025

Vincere sempre.

Quando si vince sempre, la vittoria smette di essere un esito e rischia di diventare un’identità. È una corazza sottile che brilla, ma non regge agli urti. Così, alla prima sconfitta, non crolla solo un risultato, ma trema l’idea di sé. Chi si crede imbattibile, spesso scambia il limite con l’incapacità, confondendo l’errore con il proprio valore. Molti dimenticano che la sconfitta, però, è un linguaggio. Ci dice dove finiamo noi e dove cominciano le cose che non controlliamo. È lo specchio che restituisce proporzioni: ridimensiona l’ego, illumina le crepe della nostra anima e riapre lo spazio della curiosità. Senza sconfitte non si impara la differenza tra l'identità di risultato (valgo se vinco) e l'identità di percorso (crescendo, valgo comunque). La prima è fragile perché dipende dall’applauso; la seconda è stabile perché si nutre di pratica, continua attenzione e responsabilità. 

Accettare la sconfitta non significa desiderarla, ma riconoscerla come parte del mestiere di vivere. È un invito a riorganizzare le priorità: spostare lo sguardo dal trionfo all’artigianato quotidiano, dal mito dell’impossibile all’umiltà del possibile. Perdere senza perdersi: questo è il vero esercizio. Tornare al lavoro, separare il fatto dall’autogiudizio, domandarsi cosa c’è da capire e chi possiamo diventare proprio grazie a questa crepa. In fondo, il contrario della sconfitta non è la vittoria, ma è l’apprendimento. E chi trasforma la prima caduta in nutrimento dell’anima smette di morire spiritualmente: comincia a nascere di nuovo.


lunedì 28 luglio 2025

La fine dello stile e la crisi dell'interpretazione: riflessioni sulla direzione d'orchestra nell'epoca della globalizzazione

Nel panorama musicale contemporaneo, le orchestre di tutto il mondo hanno raggiunto livelli tecnici straordinari. Decenni di scambi internazionali, la mobilità crescente, la standardizzazione della formazione, hanno permesso a molti esecutori di perfezionarsi come mai prima. Tuttavia, a questo progresso tecnico non è seguito un uguale sviluppo dell'interpretazione. La profondità musicale, lo stile, la sensibilità storica e culturale, sembrano essersi dissolti nella ricerca ossessiva della perfezione formale e della calibrazione dell'esecuzione.

La tecnica, un tempo strumento al servizio dell'espressione, si è trasformata in fine. Si ascoltano versioni impeccabili ma fredde, spesso identiche fra loro, dove ogni inflessione personale è stata espunta in favore di una neutralità globale. Il risultato è un repertorio museificato, privato di rischi, riprodotto da orchestre eccellenti ma anonime, sotto la guida di direttori mediocri che paiono più manager che artisti.

Questo appiattimento deriva anche dalla morte degli stili. Le scuole nazionali, con le loro sonorità, le loro prassi, i loro idiomi interpretativi, sono state soppiantate da un modello internazionale imposto da un'élite discografica e accademica. Il suono caldo e scuro delle orchestre mitteleuropee, il lirismo italiano, l'impeto russo, sono stati sostituiti da un'esecuzione standardizzata, tecnicamente perfetta ma spiritualmente vuota.

Un tempo, il direttore d'orchestra incarnava una figura carismatica. La sua era una funzione simbolica, quasi sacerdotale. Grandi interpreti come Furtwängler, Toscanini, Karajan, Celibidache imponevano visioni personali e affrontavano il rischio, guidando le loro orchestre con un'autorità costruita nel tempo. Oggi, quella figura è diventata mitologica. Il direttore moderno è divenuto pressoché ovunque un "assemblatore" chiamato a costruire un'esecuzione in pochi giorni (se non in poche ore) seguendo criteri di efficienza e velocità.




Anche le logiche di potere sono cambiate. Le posizioni artistiche sono sempre più spesso assegnate non in base al merito, ma per motivi economici e secondo gli interessi di grandi agenzie e circuiti internazionali, in una commistione non più distinguibile. La musica è gestita come un prodotto da confezionare e distribuire, non come un'esperienza viva da rinnovare ogni volta.

Emblematico è il caso della Cina, ma anche di altri Paesi asiatici. Grazie a forti investimenti e a un modello educativo disciplinato e gerarchico, in pochi decenni hanno raggiunto livelli tecnici altissimi. Tuttavia, questa crescita non è stata sempre accompagnata da un radicamento culturale altrettanto profondo che avrebbe richiesto forse qualche secolo. Queste orchestre riproducono modelli occidentali, spesso senza una reale interiorizzazione e riducendo l'interpretazione a una ripetizione efficiente.

Max Weber, uno dei fondatori dello studio moderno della sociologia, in una conferenza del 1917 parlò di "disincanto del mondo" per descrivere gli effetti della razionalizzazione moderna. La musica colta oggi vive qualcosa di simile. L'orchestra, da organismo espressivo, si è trasformata in macchina e il direttore non è più guida umana e spirituale, ma gestore del tempo (preziosissimo) e delle risorse. L'ascoltatore, abituato alla perfezione digitale, non accetta più l'imprevisto, la sbavatura, la tensione autentica. Tutto deve essere fluido, omogeneo e immediatamente riconoscibile; di sovente, una forma perfetta senza contenuto. L'elaborazione del pensiero e del contenuto richiede tempo, breve ma tale.

La sfida allora è quella di recuperare l'anima della musica. Non si tratta di rifiutare la tecnica o la modernità, ma di reimparare a rischiare. Di accettare che l'arte vera vive di squilibri, di intuizioni, di tensioni. Il direttore deve tornare a essere interprete, e non esecutore del consenso. L'orchestra deve riscoprire il proprio ruolo di corpo vivo e pensante. Il pubblico va coinvolto, educato, guidato verso un ascolto attivo, non solo intrattenuto.

Una mia riflessione più profonda, quasi esistenziale. La musica, come la vita, non può essere ridotta a un esercizio di perfezione. Vive, invece, nel battito incerto del cuore umano e nella tensione fra ciò che è scritto e ciò che è sentito, fra la fedeltà al testo e il coraggio dell'interpretazione. È proprio in questo spazio fragile, in cui l'esecutore si espone al rischio, che nasce la vera arte: non nel controllo assoluto, ma nell'errore che apre orizzonti inattesi, nell'imperfezione che rivela una presenza viva, nel gesto unico e irripetibile che sfugge alla norma.

Sbagliare, in musica come nella nostra esistenza, è un atto di affermazione profonda: significa che siamo presenti, che ci mettiamo in gioco, che accettiamo la caducità del tempo e la fallibilità della nostra condizione. Quando, invece, ogni esecuzione diventa prevedibile, ogni dettaglio programmato, ogni differenza cancellata in nome della precisione, la musica perde la sua dimensione umana, si fa simulacro, si chiude in una perfezione morta, priva di rischio, di emozione, di verità.

Il mondo musicale contemporaneo, per quanto tecnicamente avanzato, pare aver dimenticato che la grande interpretazione nasce non dalla paura dell'errore, ma dalla libertà di scegliere, dalla possibilità di fallire, dalla forza di dire qualcosa di personale anche a costo di infrangere le regole. È in questa tensione che risiedono la magia del gesto interpretativo e l'autenticità del rapporto con l'opera. Ecco perché, oggi più che mai, occorre recuperare un pensiero musicale che non abbia timore della fragilità, che non insegua l'efficienza come valore assoluto, ma che riconosca nello sbaglio il segno della vita che pulsa.

Perché, in fondo, sbagliare è vivere e se non si sbaglia, se tutto è già previsto, misurato, congelato, allora significa che si è già morti, non solo come interpreti, ma anche come esseri capaci di percepire, sentire, pensare e trasformare il mondo attraverso il suono.


«La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita alle quali si sottostà. Essa significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza, cioè che non sono in gioco, in linea di principio, delle forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare gli spiriti o per ingraziarseli, come fa il selvaggio per il quale esistono potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e il calcolo razionale. Soprattutto questo è il significato dell'intellettualizzazione in quanto tale.»

(Max Weber, La scienza come professione)

lunedì 21 luglio 2025

Il Fus. Musica, politica e affari

Il sostegno pubblico alla musica in Italia, attraverso il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS), è tornato al centro dell’attenzione pubblica e mediatica in seguito alla controversa nomina del direttore d'orchestra russo Valery Gergiev a ruoli di rilievo in istituzioni musicali italiane. Le critiche emerse non si limitano alla figura del musicista, noto per le sue posizioni filo-Cremlino, ma investono più ampiamente il sistema culturale italiano, mettendo in luce molte contraddizioni strutturali e il crescente intreccio tra politica, potere economico e scelte artistiche.

Il FUS, istituito nel 1985, rappresenta lo strumento principale con cui lo Stato italiano finanzia lo spettacolo dal vivo. La maggior parte dei fondi è stabilmente destinata a fondazioni lirico-sinfoniche, teatri d’opera e festival storici. L’analisi dei dati più recenti (MiC, SIAE 2023) mostra una netta predominanza di repertori ottocenteschi e novecenteschi, con una presenza marginale di compositori contemporanei e giovani interpreti. Nonostante gli obiettivi dichiarati di pluralismo e promozione della creatività, il sistema favorisce una programmazione che ripropone ciclicamente lo stesso repertorio e gli stessi nomi. In questo contesto, le istituzioni sembrano muoversi più secondo logiche di mantenimento dei contributi che di apertura artistica.

L’invito a Valery Gergiev, artista noto non solo per il suo talento ma anche per il suo sostegno esplicito alla leadership politica russa, ha sollevato interrogativi profondi. Quali sono oggi i criteri con cui si effettuano le scelte artistiche nelle istituzioni finanziate con denaro pubblico? E soprattutto, quanto queste scelte rispondono a motivazioni culturali piuttosto che a equilibri politici o relazioni internazionali?

Il caso ha messo in evidenza come la cultura possa diventare terreno di ambigue convergenze, dove la qualità artistica si intreccia con dinamiche diplomatiche, convenienze economiche e strategie di visibilità. In un momento in cui l’Europa discute il valore dell’autonomia culturale, la vicenda Gergiev pone l’Italia davanti a un bivio: continuare a sostenere istituzioni che operano scelte in apparente contraddizione con i valori democratici e pluralisti, o interrogarsi sul senso e sugli obiettivi reali del finanziamento pubblico. L’episodio Gergiev non è un caso isolato, ma un indicatore di un sistema in cui la coerenza tra principi e pratiche appare sempre più debole. Mentre tantissimi giovani artisti faticano a trovare spazio e la musica contemporanea è relegata ai margini, le risorse pubbliche continuano a fluire verso strutture che, nei fatti, riproducono una visione statica, chiusa e sempre più permeabile alle logiche del potere.

La domanda cruciale che emerge è dunque la seguente: quale idea di cultura vogliamo sostenere con i fondi pubblici? La risposta non può essere rimandata. 

Suonare dritti, anche quando il vento gira

Nel mondo della musica – e più in generale dell’arte – la questione della libertà personale e dell’integrità intellettuale è centrale. Non si tratta solo di capacità tecnica, né di creatività o talento, ma della qualità più difficile da mantenere in ogni tempo: la coerenza con sé stessi.

In un contesto culturale sempre più orientato al consenso immediato e al riconoscimento pubblico, molti artisti, spesso dotati e brillanti, scelgono la via più rapida per ottenere visibilità: seguire il gusto dominante, adattarsi alla moda del momento, dire ciò che ci si aspetta di sentire. Si mimetizzano in contesti rassicuranti, diventano voci intercambiabili in un panorama estetico e ideologico sempre più omogeneo. Questa non è libertà. È opportunismo culturale. È trasformare l’arte in una moneta da scambiare per ottenere accettazione, premi, inviti. È confondere il coraggio con l’astuzia, la profondità con la convenienza. Ma l’arte, la vera arte, non nasce per compiacere. Nasce per interrogare, per mettere in discussione, per rivelare.

Il pensiero indipendente, in ambito artistico, non è una posa romantica, né un vezzo intellettuale. È un atto di responsabilità. Significa rifiutare la logica del compromesso, anche quando il compromesso è ben pagato, ben premiato e ben visto. Essere artisti oggi richiede una schiena dritta, non solo un curriculum brillante. La fedeltà a un’estetica personale, a un messaggio autentico, implica spesso il rischio dell’isolamento. Non sempre ciò che è vero è compreso subito. Non sempre ciò che è necessario è premiato. Ma chi sacrifica la propria voce per adattarsi alle aspettative esterne, alla lunga, non si ascolta più nemmeno da dentro.

Ogni epoca ha i suoi “centri di gravità culturali”, spesso non dichiarati: gruppi, ambienti, ideologie, canoni estetici. Spazi che, per essere frequentati, richiedono l’adesione più o meno esplicita a una linea. Chi si discosta viene lentamente marginalizzato. Non per censura diretta, ma per un meccanismo più subdolo: l’esclusione per disallineamento. In questo scenario, il gesto più rivoluzionario resta quello più semplice e raro: essere fedeli alla propria voce, anche quando è fuori moda. Continuare a suonare, a scrivere o dipingere secondo ciò che si sente giusto, anche quando tutto intorno spinge a cambiare rotta. La storia dell’arte è piena di figure che non si sono piegate. Alcune sono state ignorate in vita, altre criticate, ostacolate. Ma sono proprio quelle voci, spesso solitarie, a essere ricordate, studiate, riprese. Non per l’abilità di stare al passo con i tempi, ma per la forza di averli attraversati senza snaturarsi. È da qui che nasce la vera forza di un artista: non dall’aver detto ciò che era comodo, ma dall’aver detto ciò che era necessario. Non dall’essersi adattato al contesto, ma dall’aver lasciato un’impronta riconoscibile e vera.


Rimanere dritti, anche quando il vento cambia, è forse la sfida più difficile, ma è anche l’unica che valga davvero la pena di affrontare.

domenica 20 luglio 2025

Perché il titolo di studio nelle arti andrebbe abolito

 

Parlo da musicista, ma ciò che dico vale per chiunque viva nel mondo dell’arte: pittori, attori, scrittori, registi, esecutori. Dopo anni trascorsi tra studi formali, ambienti accademici e realtà artistiche indipendenti, ho maturato una convinzione tanto netta quanto impopolare: il titolo di studio nelle discipline artistiche è inutile. Anzi, dannoso. E dovrebbe essere abolito.


Un titolo che non dimostra nulla

Sin da quando mi iscrissi al conservatorio, sapevo che una laurea, allora diploma, non mi avrebbe aperto le porte del mondo professionale. Nella migliore delle ipotesi sapevo che sarebbe stato utile per compilare moduli e partecipare a concorsi pubblici. Nessuno mi ha mai chiesto un diploma agli inizi della mia vita musicale, eccezion fatta per insegnare in conservatorio, dove capitai per caso a seguito di un invito del mio maestro di Composizione, Bruno Bettinelli. Il mio valore, come quello di tanti colleghi, si è costruito altrove: nelle infinite ore di studio vero, nei fallimenti, nei primi concerti in sale semivuote, nelle collaborazioni, nelle emozioni condivise con il pubblico. Tutto questo non figura su un pezzo di carta.

La musica non è un mestiere certificabile

La musica, come le arti in generale, non è un mestiere codificabile. Non puoi quantificare la sensibilità, la creatività, l’autenticità. Eppure, oggi ci si ostina a voler “laureare” anche la spontaneità. Si pretende che il talento passi attraverso la burocrazia. Si trasformano strumenti e corpi in fascicoli, passioni in CFU, ispirazioni in esami a tempo. È una contraddizione evidente: le accademie rilasciano titoli, ma il mondo reale cerca artisti. E gli artisti veri, spesso, quei titoli non li hanno. Non perché siano “ignoranti” o “impreparati”, ma perché hanno scelto un’altra via, fatta di pratica, di ascolto, di contatto diretto con l’arte viva, non mediata dalla forma scolastica. Questa distorsione non riguarda solo la musica. Un pittore non ha bisogno di un diploma per creare opere potenti. Uno scrittore non deve aver frequentato un corso di laurea in lettere per scrivere un romanzo che emoziona e resta. Un attore non è più credibile perché ha una pergamena, ma perché sa stare in scena. Eppure, anche in questi ambiti, si insiste nel voler certificare l’arte, incasellarla, “validarla” attraverso percorsi universitari che spesso disincentivano la libertà anziché nutrirla.

L’unica utilità: i concorsi pubblici

L’unico contesto dove il titolo artistico conta è la pubblica amministrazione. Vuoi insegnare musica nelle scuole? Ti serve la laurea, anche se hai inciso dieci album. Vuoi partecipare a un bando regionale per un progetto culturale? Devi allegare il tuo diploma, anche se la tua carriera parla da sola. Il paradosso è che la scuola e lo Stato, che dovrebbero valorizzare il merito artistico, lo filtrano attraverso una griglia burocratica incapace di riconoscerlo davvero. E qui arriva l’aspetto più frustrante: anche con un titolo, il merito resta subordinato a titoli secondari, punti extra, corsi obbligati. Non conta quanto sai fare, ma quanto sei “in regola”. Così vince non il migliore, ma il più conforme.

Perché abolire il titolo di studio nelle arti

Arrivati a questo punto, io credo che il titolo di studio nelle arti dovrebbe essere essere abolito, o quantomeno privato del suo valore legale. Non serve a certificare la qualità e non aiuta i veri talenti. Non facilita l’accesso al lavoro, ma serve solo a creare una classe di artisti formalizzati, ma spesso svuotati di spontaneità. Serve a giustificare un sistema che premia l’aderenza alle regole, non l’originalità. La formazione artistica deve esistere, certo, ma deve essere libera, pluralista, non vincolata al titolo. Studiare in un conservatorio, in un’accademia o in una scuola di teatro deve essere una scelta per crescere, non una tappa obbligata per “ottenere il foglio”.

Conclusione: arte e burocrazia non possono convivere

L’arte non è un settore come gli altri. È un linguaggio, un’urgenza, una forma di conoscenza diversa. Tentare di inquadrarla dentro le logiche accademiche è una forzatura che svilisce sia l’arte che l’istruzione. Continuare a farlo, a mio avviso, è un danno culturale e sociale. Non chiedo più riforme o riconoscimenti. Chiedo qualcosa di più radicale: che si riconosca l’inutilità del titolo di studio in ambito artistico. Che lo si abolisca, o lo si svuoti del suo potere coercitivo. Solo così potremo restituire all’arte la sua funzione autentica: quella di parlare al mondo senza dover passare da un ufficio protocollo.

sabato 19 luglio 2025

Verità, forma e coscienza musicale. Il suono e la necessità.


Non c'è perdono nella musica. Solo necessità.

La musica non consola, non assolve, non salva. Non è un rifugio, è una disciplina che pretende coerenza, attenzione, giustezza. Non nel senso morale, ma in quello formale e fisico. In musica, ogni elemento ha un posto definito: ogni nota, ogni pausa, ogni respiro. Nulla si aggiusta dopo, ma tutto è adesso, perché ogni incertezza si sente e si ricorda.

Il musicista non lavora per il piacere, ma per la chiarezza e la chiarezza non è mai comoda, perché espone, misura, svela. Non offre protezione, al contrario, rende nuda la struttura e non permette al gesto di nascondersi dietro l'intenzione, perché ogni azione è rintracciabile ed ogni omissione pesa.

In questo paesaggio severo, l'errore tecnico è umano e a volte persino fertile: può aprire strade, rivelare punti ciechi, restituire verità non previste. Ma un suono esatto privo di intenzione è imperdonabile. Una nota corretta senza anima è un sacrilegio, perché finge la vita senza sopportarne il peso. È una menzogna metrica, un gesto morto, una simulazione che tradisce la musica più di qualsiasi imprecisione.

La musica non è mai pura ripetizione, ma è scelta consapevole, perché ogni esecuzione è un'esposizione. Il musicista autentico non interpreta, ma rischia; non riproduce, ma interroga. Ogni nota diventa testimone ed ogni frase musicale una dichiarazione d'esistenza. Suonare senza anima equivale a parlare senza pensiero. È come nominare l'essere senza esserci.

A un livello ancora più profondo, dirigere un'orchestra rappresenta un grado ulteriore di responsabilità. Non si tratta di comandare, ma di reggere la complessità del suono altrui. Il direttore custodisce l'intenzione collettiva, cerca un respiro comune nel disaccordo, tiene in vita un'architettura sonora che esiste solo se ognuno partecipa all'ascolto dell'altro. Dirigere richiede rigore, ascolto, capacità di scomparire nel gesto. Non è una figura che si impone, ma che organizza, sostiene, trasmette coerenza. La forza che esercita è senza ostentazione, la lucidità non è dominio, ma puro servizio.

La musica è, nella sua essenza più austera, l'arte della necessità. Non rappresenta ciò che si vuole, ma ciò che non può non essere. In questo spazio è escluso il perdono, perché è esclusa la finzione e ciò che davvero conta è la verità temporanea e totale che ogni esecuzione deve tentare di realizzare. Non si può dire: si può solo suonare. Quando accade, senza garanzia, senza promessa, ogni altra cosa tace. Tutto è già lì.

L'arte musicale non ha la solidità della scultura, né la permanenza della parola scritta. Vive nel tempo, si consuma nell'atto, e proprio per questo esige una presenza assoluta in un frammento effimero. Ogni nota è irripetibile, ogni gesto si compie una volta sola. Il valore di un'esecuzione non sta nella sua più o meno particolare riproducibilità, ma nella sua intensità. Un suono non è mai per sempre, ma può essere per intero. E quel breve istante in cui tutto coincide (il gesto, la forma, l’intenzione, l’ascolto) vale più di ogni durata.

La musica, quando è vera, non lascia un oggetto, ma lascia un varco, un'apertura nel tempo, una fessura nell'identità. Lascia un segno che non si vede, ma che insiste e soprattutto lascia un varco in chi ascolta, in chi suona, in chi cerca. Questo varco rimane aperto e silenzioso, ma pronto a suonare ancora, solo se qualcuno avrà il coraggio di rischiare un viaggio misterioso ancora una volta, tutto per una sola nota.





giovedì 17 luglio 2025

Milano non è da tempo la mia città

Milano viene spesso celebrata come simbolo di modernità, innovazione e progresso urbano. È il “motore d’Italia”, la “capitale morale”, la città delle opportunità. Eppure, per chi la abita quotidianamente, soprattutto per chi appartiene alla classe media o popolare, questa narrazione è sempre più difficile da riconoscere nella realtà. Negli ultimi due decenni, Milano ha subito una trasformazione urbana radicale. Quartieri un tempo popolari sono stati “riqualificati” in nome della modernità, trasformandosi in zone d’élite dove il costo della vita è insostenibile per la maggioranza dei cittadini. Il prezzo degli immobili è salito alle stelle, spinto da investimenti speculativi e da una politica urbanistica che ha privilegiato i grandi operatori immobiliari a scapito dell’interesse pubblico. La città è diventata terreno fertile per fondi di investimento, architetti-star e developer internazionali, mentre il tessuto sociale tradizionale si è sfilacciato. Milano si è così trasformata in una città vetrina, dove interi quartieri del centro sono occupati da boutiques di lusso, ristoranti fotocopia e grattacieli scintillanti di banche e multinazionali. Un palcoscenico urbano pensato più per attrarre capitali e turisti che per rispondere ai bisogni concreti dei suoi abitanti. Di sera, questi luoghi diventano deserti urbani: il “deserto dei Tartari” di una modernità senz’anima. La tanto declamata “rigenerazione urbana” si è spesso tradotta in un appiattimento paesaggistico. Spianate di cemento, piazze senz’ombra, arredo urbano che punta sull’effetto wow ma dimentica il benessere reale. Dove c’erano alberi e vita di quartiere, oggi si trovano superfici bruciate dal sole, spazi privi di accoglienza, ostili alla socialità spontanea. Il verde, quando c’è, è decorativo, non vissuto. E la sostenibilità si limita troppo spesso a slogan e interventi simbolici: piste ciclabili disegnate a caso, tavoli da ping pong sull’asfalto, panchine arcobaleno, ma nessuna vera politica di redistribuzione dello spazio urbano.

Milano è amministrata da anni da una coalizione che si definisce di centrosinistra. Ma cosa resta di “sinistra” quando le priorità amministrative coincidono con quelle del grande capitale? Il paradosso è che, mentre si dipingono strisce colorate e si celebrano eventi simbolici, si continua a governare con la logica del mercato, favorendo le stesse dinamiche di esclusione e rendita urbana che hanno storicamente contraddistinto le amministrazioni più conservatrici. La verità è che la differenza tra destra e sinistra, almeno sul piano urbano, si è assottigliata fino quasi a scomparire. Il neoliberismo ha permeato ogni forma di governo locale, svuotando la politica di ogni capacità redistributiva. L’amministrazione “progressista” milanese sembra più interessata a mantenere la propria immagine internazionale e attrattiva per gli investitori, che a costruire una città giusta, accessibile, equa. Una città non è solo un insieme di infrastrutture, servizi, eventi. È fatta di relazioni, memoria, spazi comuni, possibilità di vivere dignitosamente. Quando la città diventa ostile a chi non può permettersi di consumarla, quando il centro si svuota di residenti e la periferia si riempie di disagio, quando la bellezza è riservata a chi può pagarla, allora non siamo più davanti a una città vivibile, ma a una messa in scena.

Milano è diventata una città senza anima: brillante, ma vuota; efficiente, ma diseguale; moderna, ma profondamente ingiusta. E se un’amministrazione, per quanto onesta, non ha la sensibilità di vedere questa trasformazione e contrastarla, allora ha già perso il contatto con la sua missione più autentica: governare per il bene comune, non per l’interesse di pochi.

mercoledì 16 luglio 2025

𝐋𝐚 𝐦𝐢𝐧𝐚𝐜𝐜𝐢𝐚 𝐬𝐢𝐥𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐬𝐚: 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐥𝐚 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐮𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐦𝐨𝐜𝐫𝐚𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐈𝐬𝐥𝐚𝐦 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐯𝐞𝐫𝐢𝐬𝐜𝐞 𝐞 𝐬𝐩𝐞𝐠𝐧𝐞 𝐥𝐞 𝐚𝐫𝐭𝐢 𝐨𝐜𝐜𝐢𝐝𝐞𝐧𝐭𝐚𝐥𝐢.

La storia dell’Europa è inseparabile dalla sua arte. La pittura rinascimentale, la scultura classica, l’opera lirica, la musica sinfonica, la filosofia visiva di registi e performer: tutto nasce da un principio fondamentale, la libertà assoluta di espressione. Libertà di offendere, di scioccare, di rappresentare Dio, il corpo, la morte, l’eros.

Oggi, però, questa libertà non è più scontata. La cosiddetta “diffusione democratica” dell’Islam, spesso vista ingenuamente come semplice pluralismo religioso, è in realtà un cavallo di Troia che minaccia alla radice la vitalità estetica e culturale occidentale.
𝐔𝐧 𝐫𝐢𝐟𝐢𝐮𝐭𝐨 𝐞𝐬𝐭𝐞𝐭𝐢𝐜𝐨 𝐭𝐨𝐭𝐚𝐥𝐞
L'Islam tradizionalista non si limita a non apprezzare l’arte occidentale: la rifiuta in blocco. Nelle periferie europee dove le comunità musulmane sono ormai maggioranza, la stragrande maggioranza degli abitanti vive completamente scollegata dal mondo artistico e musicale. La pittura, la danza, la musica, la scultura sono percepiti come strumenti di corruzione morale, come distrazioni vietate dalla Sunna e dal Corano.
Non si tratta di differenze di gusto, ma di un vero rigetto antropologico. In molti quartieri francesi, ad esempio, le scuole di musica chiudono perché considerate “luoghi di peccato”. In Svezia e in Germania, festival musicali hanno dovuto annullare artisti o cambiare programmi per “rispettare la sensibilità delle comunità locali”.
𝐆𝐥𝐢 𝐞𝐩𝐢𝐬𝐨𝐝𝐢 𝐝𝐢 𝐜𝐞𝐧𝐬𝐮𝐫𝐚: 𝐬𝐞𝐠𝐧𝐢 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐬𝐚
Gli esempi concreti si moltiplicano. Nel 2004, Theo van Gogh, regista olandese, fu brutalmente assassinato ad Amsterdam per aver diretto un cortometraggio che criticava il trattamento delle donne nell’Islam. Non si tratta di un semplice atto criminale isolato: è il simbolo di un clima in cui l’artista deve temere per la propria vita se osa toccare temi religiosi.
Nel 2006, il mondo intero ricorda le proteste violente scatenate dalle vignette danesi su Maometto, con ambasciate incendiate, minacce di morte e intimidazioni a disegnatori e giornalisti. Queste minacce non furono semplici manifestazioni di dissenso, ma veri e propri attacchi mirati alla libertà artistica e satirica.
Nel 2015, l’attacco a Charlie Hebdo sancì definitivamente che in Europa non esiste più un diritto di satira assoluto quando si tratta di Islam. Gli artisti, oggi, si autocensurano. Gallerie d’arte rinunciano a esporre opere potenzialmente offensive. Case editrici evitano pubblicazioni scomode. Questa è la prova più tragica che la democrazia liberale sta cedendo di fronte alla minaccia islamista.
𝐔𝐧’𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐧𝐭𝐚 “𝐜𝐨𝐥𝐩𝐚”
La società occidentale ha sviluppato la musica come linguaggio universale di libertà. Ha esaltato la danza come celebrazione del corpo. Ha reso la pittura un atto sacro e al tempo stesso scandaloso. Ma in una società dove intere masse di immigrati considerano queste espressioni peccaminose, il futuro dell’arte è segnato.
Nei quartieri dove la sharia di fatto sostituisce la legge civile (da Molenbeek a certe zone di Parigi o Malmö), le donne vengono minacciate se osano partecipare a corsi di danza. I musicisti sono costretti a suonare in clandestinità. I teatri chiudono o cambiano programmazione per non “provocare” la comunità.
A rendere ancora più grave questa deriva, si aggiunge un fatto recentissimo e clamoroso: nel Regno Unito sono stati ufficialmente riconosciuti tribunali islamici (Sharia courts), autorizzati a dirimere dispute civili e familiari all’interno delle comunità musulmane. Un precedente pericolosissimo e decisamente imprevidente, che segna un cedimento storico. Con questa concessione, non solo si frammenta il principio della legge unica per tutti, ma si legittima una giurisdizione parallela che pone le basi per future rivendicazioni ancora più invasive. Oggi si tratta di matrimoni e eredità; domani potrà riguardare diritti fondamentali, inclusa la libertà artistica e di espressione.
𝐋’𝐢𝐥𝐥𝐮𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐠𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐫𝐭𝐢𝐬𝐭𝐢𝐜𝐚
L’idea che si possa creare un “dialogo estetico” con chi rifiuta alla radice la libertà artistica è pura utopia. Non si può costruire un ponte con chi considera l’arte un atto blasfemo. Non si può integrare chi, educato a considerare il corpo una fonte di vergogna, demonizza la danza e la scultura.
La retorica dell’integrazione culturale non fa che mascherare una lenta ritirata. L’arte non è un lusso decorativo: è la linfa vitale di una civiltà. Quando si rinuncia all’arte per non “offendere”, si rinuncia a se stessi.
𝐂𝐨𝐧𝐜𝐥𝐮𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞: 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐨 𝐬𝐨𝐜𝐜𝐨𝐦𝐛𝐞𝐫𝐞
L’Islam, nella sua versione più rigida e ortodossa che si diffonde anche grazie alla democrazia, rappresenta oggi una minaccia reale, non astratta. Non è un pericolo che si manifesti con divieti ufficiali o leggi immediate: si diffonde come un veleno lento, che impone l’autocensura, la paura, la sottomissione psicologica.
Il caso dei tribunali islamici in UK non è un dettaglio burocratico: è la prova concreta che l’Occidente sta svendendo i suoi principi fondanti, legittimando un sistema giuridico estraneo e potenzialmente incompatibile con la libertà individuale.
Se l’Europa tutta, e con essa il nostro mondo occidentale non avrà il coraggio di dire con forza che la libertà artistica è un valore non negoziabile, se non difenderà con orgoglio la musica, la pittura, la scultura e la satira, finirà per trasformarsi in un deserto culturale, dove la bellezza sarà vista come un peccato, e l’arte come una colpa da espiare.
𝐋𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐥𝐭𝐚 è 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐥𝐢𝐜𝐞: 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐥’𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐞 𝐥𝐚 𝐥𝐢𝐛𝐞𝐫𝐭à, 𝐨 𝐚𝐫𝐫𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐬𝐢 𝐚𝐥 𝐬𝐢𝐥𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨 𝐠𝐫𝐢𝐠𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐨𝐬𝐜𝐮𝐫𝐚𝐧𝐭𝐢𝐬𝐦𝐨.



martedì 15 luglio 2025

Il silenzio che ci avvolge

Abbiamo cresciuto giovani musicisti convinti che la musica fosse un atto di verità. Un varco attraverso cui diventare più umani, un’occasione per imparare a guardare oltre sé stessi, a toccare la fragilità propria e altrui. Li abbiamo accolti con gli occhi accesi, colmi di fame e di stupore, certi che avrebbero difeso la parte più luminosa e viva di loro stessi. In molti abbiamo creduto senza riserve. Abbiamo dato tempo, energie, pazienza. A qualcuno abbiamo consegnato parti profonde di noi, convinti di trovarci davanti anime capaci di restituire al mondo bellezza e compassione. Credevamo che la musica li avrebbe spinti a essere creature vigili, attente, capaci di ascoltare non solo i suoni, ma i silenzi che abitano ogni essere umano. Sfortunatamente, col tempo abbiamo assistito a un lento tradimento. Quel fuoco iniziale si è consumato sotto il peso di un bisogno famelico di approvazione e l’urgenza di dire qualcosa di autentico ha ceduto il passo alla smania di essere visti, di raccogliere applausi, di costruire un’immagine inattaccabile. La musica è diventata un trofeo, un’etichetta da ostentare, un modo per mettere sé stessi al centro, sempre e comunque.

Come molti, ho dato molto a chi pensavo avesse un cuore vivo. Ho difeso sensibilità che credevo vere, ho investito fiducia, ho creduto nella promessa di un'anima nobile, ma ho trovato cuori di vetro: brillanti fuori, ma fragili e chiusi, incapaci di vedere davvero chi avevano accanto. Oggi vedo vite musicali impeccabili, successi confezionati con precisione maniacale, carriere che scorrono come macchine ben oliate. Ma dietro quei sorrisi studiati si nasconde un vuoto che pesa più di qualsiasi sconfitta. Un silenzio freddo, un’assenza che avvolge ogni nota. Non c’è più ascolto, non c’è più dono, non c’è più anima. Solo la fame di perfezione, di essere riconosciuti e contati come merce rara. A volte, di potere.

Ed è qui che si svela l’inganno più grande: chi vive per apparire si condanna a non vedere più niente. Né la bellezza che passa accanto, né la mano tesa dell’altro, né le proprie crepe più profonde. La musica si può insegnare e la tecnica si può perfezionare fino a diventare un’ossessione. Ma la capacità di restare veri, quella di non rinunciare alla propria umanità per un applauso in più, non si può imporre. È una scelta quotidiana, scomoda, spesso dolorosa, che pochi trovano il coraggio di fare.

E allora mi chiedo, con un’amara lucidità: a cosa serve conquistare ogni palco, se alla fine non resta più nessuno da abbracciare? Se non resta un volto da guardare, un cuore da sfiorare, un’anima a cui confidare il silenzio tra due note? Forse, in quel vuoto, si nasconde la domanda più importante. E forse, in quel silenzio, si sente la musica più crudele: quella che ci racconta chi siamo davvero, quando smettiamo di essere umani.

domenica 13 luglio 2025

Il terribile silenzio degli artisti nel mondo occidentale

In un’epoca segnata da guerre, disuguaglianze crescenti, crisi climatiche e derive autoritarie, il silenzio degli artisti occidentali suona come un eco assordante. L’artista, un tempo coscienza critica della società, sembra essersi rifugiato in un individualismo estetico, in una ricerca di bellezza sterile, oppure nell’illusione di una neutralità che diventa, in realtà, complicità.

Il sistema dell’arte è oggi profondamente legato al mercato, ai grandi collezionisti, alle sponsorizzazioni delle multinazionali. Esporsi significa rischiare l’esclusione, perdere visibilità o sostegno economico. Così, la libertà di espressione, che in Occidente è un diritto garantito, viene svuotata dall’interno, trasformandosi in disimpegno. Ma c’è un silenzio ancora più grave: quello nei confronti dell’Islam radicale. Negli ultimi anni, l’espansione di movimenti integralisti islamici in Europa è diventata una delle questioni più delicate e preoccupanti. La paura di offendere, di essere accusati di islamofobia, di attirare minacce o violenze, ha spinto molti intellettuali e artisti a non prendere posizione. Si preferisce tacere, rifugiarsi in formule generiche come “pace” e “tolleranza”, ignorando che la tolleranza non può significare accettazione di pratiche e ideologie che negano diritti fondamentali, in primo luogo quelli delle donne e delle minoranze.

Il caso dell’Inghilterra è emblematico: la creazione e il riconoscimento, anche se solo in materie civili e di diritto familiare, dei tribunali islamici (sharia courts), ha generato un precedente inquietante. In nome di un multiculturalismo mal interpretato, si è arrivati a legittimare sistemi giuridici paralleli che mettono a rischio l’uguaglianza davanti alla legge, un pilastro essenziale delle democrazie occidentali. 

A questa ipocrisia generalizzata non sfugge nemmeno il mondo della musica. Oggi assistiamo a un paradosso: la musica, che dovrebbe essere voce universale di libertà, spesso si piega al calcolo politico o al conformismo. Un esempio lampante è la recente decisione di permettere a Valery Gergiev, direttore d'orchestra notoriamente vicino al regime di Putin, di tornare a dirigere in Italia, come se fosse un gesto di grande “apertura” o un atto di alto impegno etico.


Dietro questa apparente concessione “tollerante” si cela una profonda ipocrisia: mentre si puniscono o censurano artisti dissidenti, o si ostracizzano voci scomode, si accolgono figure che non hanno mai nascosto il loro sostegno a governi autoritari. Si vende come “arte oltre la politica” ciò che, in realtà, è semplice opportunismo, utile a riempire poltrone e vendere biglietti.

Nel frattempo, si tace sulla repressione dei diritti in Russia, sulla guerra in Ucraina, sui crimini contro le opposizioni, sulla sistematica cancellazione della libertà di stampa. Di fronte a questi sviluppi, il silenzio degli artisti diventa non solo un segno di codardia, ma un tradimento del loro ruolo storico: dare voce agli emarginati, difendere la libertà, sfidare il potere e le ingiustizie. In altre parti del mondo, ci sono artisti che rischiano la vita per un murales, una canzone, un verso di poesia. In Occidente, dove la parola è (ancora) libera, molti scelgono invece di autocensurarsi. Il risultato è un mondo artistico sempre più asettico, prigioniero della logica del consenso e della paura di perdere follower o contratti.

C'è bisogno di coraggio, ora più che mai. Di arte che sappia denunciare, che osi turbare, che rifiuti il compromesso facile, perché un artista che tace di fronte all’ingiustizia non è solo un artista silenzioso, ma è un artista complice.

sabato 12 luglio 2025

Odiatori del sistema tonale: un feticcio ideologico

Tra le derive più grottesche di questo grande bluff musicale contemporaneo, spicca l'odio viscerale per il sistema tonale. Un odio che, nel tempo, si è trasformato in un vero e proprio feticcio ideologico, quasi una religione laica con le sue scomuniche e le sue ortodossie.

Per decenni ci è stato ripetuto che la tonalità fosse un relitto borghese, un retaggio del passato da cancellare per far posto alla "vera" modernità. La musica tonale, ci dicevano, sarebbe incapace di dire qualcosa di nuovo, incapace di esprimere la complessità dell’uomo contemporaneo. Come se la complessità umana potesse esprimersi solo attraverso dissonanze sistematiche, cluster, rumori industriali e micro-intervalli.

Ma la verità è un’altra: la tonalità non è un semplice "sistema", un gabbione da cui liberarsi. È un linguaggio, un codice emotivo universale che ha accompagnato secoli di musica e continua a parlare al cuore delle persone. Bach, Beethoven, Mahler, ma anche il jazz, il rock, la canzone d’autore: tutti dialogano con la tonalità, la reinventano, la contaminano. L'odio per la tonalità spesso non nasce da un’esigenza artistica autentica, ma da un bisogno di differenziarsi, di sentirsi "più puri", "più evoluti", "più intellettuali" degli altri. È un'arma ideologica per marcare un confine tra "noi" (i veri innovatori) e "loro" (i passatisti, i nostalgici). È lo stesso meccanismo che anima certi settarismi politici o religiosi: non importa più creare qualcosa di significativo, importa soltanto ribadire la propria appartenenza al clan dei "salvati".

Il paradosso più comico e al contempo tristissimo, è che, alla fine, molti di questi odiatori della tonalità hanno semplicemente sostituito una gabbia con un’altra. Hanno gettato via le regole armoniche classiche per abbracciare dogmi ancora più rigidi: serialismi integrali, algoritmi compositivi, procedure aleatorie che, anziché liberare la creatività, la incatenano dentro un formalismo sterile.

E allora, dov’è la libertà? Dov’è la sincerità? Se la tonalità è solo uno dei possibili linguaggi, perché demonizzarla? Perché negare al compositore il diritto di usarla, di reinventarla, di mescolarla a nuovi colori? Il vero artista non dovrebbe farsi domande su cosa "si può" o "non si può" fare, ma su cosa sente la necessità di dire, su come restituire al pubblico un’esperienza viva.

Il dogma anti-tonale è ormai un tic accademico, una parola d’ordine per ottenere finanziamenti, per passare selezioni nei concorsi, per essere "programmabili" nei festival. Una scorciatoia per sentirsi dalla parte giusta della storia. Ma la storia (la storia vera, non quella scritta nei bollettini universitari) non ha mai premiato i sacerdoti dell’ortodossia. La storia premia chi riesce a parlare al cuore dell’uomo. E il cuore dell’uomo non riconosce confini, non distingue tra "tonale" e "atonale": riconosce solo ciò che è vero. In un’epoca dove tutti si riempiono la bocca di "pluralità dei linguaggi", la tonalità viene invece trattata come un colpevole da processare. È un gesto di incredibile ipocrisia. La vera pluralità, la vera apertura, significa ammettere che la tonalità può convivere con la dodecafonia, il minimalismo, l’elettroacustica, il noise. Significa ammettere che la tonalità, proprio perché è radicata nell’ascolto umano, può essere ancora oggi strumento di ricerca, di vertigine e di bellezza.

Chi davvero crede nella musica come arte viva dovrebbe smettere di erigere steccati. Dovrebbe smettere di combattere guerre ideologiche ormai ridicole. Dovrebbe, semplicemente, mettersi in ascolto.

lunedì 7 luglio 2025

Islam, cultura europea e il rischio per le future generazioni

L’Europa, culla di un umanesimo che ha alimentato per secoli arte, scienza e filosofia, si trova oggi di fronte a una sfida profonda e complessa: la convivenza con culture e religioni che presentano visioni del mondo molto diverse, tra cui l’Islam. Non si tratta di una questione puramente religiosa, bensì culturale e identitaria, che interroga le fondamenta stesse della civiltà europea. Il pensiero europeo, a partire dal Rinascimento, si è caratterizzato per la centralità dell’individuo, la libertà di espressione, il dubbio come strumento di conoscenza e la separazione tra potere religioso e politico. Questo spirito ha permesso la fioritura delle arti, delle lettere e delle scienze. Invece, in molte interpretazioni dell’Islam — soprattutto quelle più rigoriste — la vita individuale è fortemente regolata dal Corano e dalla Sunna, lasciando poco spazio al libero arbitrio e alla creatività artistica intesa come autonoma ricerca del senso.

La tensione tra queste due visioni emerge, ad esempio, nella rappresentazione artistica. La tradizione islamica, per motivi dottrinali, tende a vietare la raffigurazione figurativa, mentre l’arte europea ha celebrato per secoli il corpo umano, la natura e la libertà dell’immaginazione. Allo stesso modo, la letteratura europea si fonda su un incessante interrogarsi, sulla messa in discussione di dogmi, mentre nelle scuole coraniche più rigorose la conoscenza si riduce spesso a un’adesione totale e incondizionata al testo sacro.

Questa rigidità rischia di costituire un pericolo soprattutto per le future generazioni, nel caso in cui venissero educate esclusivamente secondo principi religiosi che scoraggiano il pensiero critico. Se la formazione dei giovani si limitasse «ai detti del profeta» e a ciò che prescrive il Corano, potremmo assistere a un progressivo disinteresse verso le conquiste dell’arte, della filosofia e della scienza. Il risultato sarebbe una società più chiusa, priva di curiosità e di spirito creativo, fondata su superstizione e ignoranza.

L’ignoranza, infatti, è il veleno più subdolo: anestetizza lo spirito, indebolisce il senso civico, rende le menti facili da controllare. Quando una società smette di porsi domande, di esplorare il mistero e di guardare oltre la superficie delle cose, diventa vulnerabile alle derive autoritarie e fanatiche. In un mondo dove la tecnologia avanza in modo vertiginoso e dove il pensiero scientifico dovrebbe guidarci verso nuove conquiste, il rischio di ritirarsi in posizioni dogmatiche è particolarmente pericoloso.

A ciò si aggiunge la colpevole cecità del mondo contemporaneo, troppo abituato ai propri agi per accorgersi dei cambiamenti profondi che lo stanno attraversando. Il benessere materiale, seppure importante, può diventare un anestetico che spegne il senso critico e la capacità di resistenza culturale. L’Europa, che un tempo era pronta a difendere la libertà di pensiero a costo della vita, oggi appare spesso sorda e indifferente di fronte alla graduale erosione dei propri valori fondanti. Il futuro che ci attende, in questo scenario, è incerto e pericoloso. Senza una difesa decisa dei principi di libertà, razionalità e laicità, rischiamo di consegnare ai nostri figli un continente impoverito culturalmente e spiritualmente, dominato dall’ignoranza e dalla superstizione, incapace di produrre arte, incapace di pensare, incapace di sognare.

La sfida, dunque, non è soltanto proteggere la cultura europea dall’esterno, ma risvegliare in noi stessi la volontà di difenderla, di coltivarla, di trasmetterla. Significa tornare a educare le nuove generazioni non alla cieca obbedienza, ma al dubbio, alla bellezza, alla ricerca della verità. Solo così potremo garantire un futuro in cui la cultura, la libertà e l’arte non siano solo retaggi di un passato glorioso, ma linfa viva di una civiltà che non rinuncia a essere se stessa.

Karl Popper, filosofo austriaco, considerato uno dei più influenti del suo tempo

Il filosofo Karl Popper, nel suo "La società aperta e i suoi nemici", avvertiva che la tolleranza illimitata può portare alla scomparsa della tolleranza stessa: se una società aperta permette a dottrine intolleranti di prosperare senza critica, finisce per autodistruggersi. Questo principio, noto come "il paradosso della tolleranza", dovrebbe guidare le politiche migratorie e di integrazione europee. Il futuro che ci attende, in questo contesto, è incerto e potenzialmente pericoloso. La sfida più grande è risvegliare la coscienza critica collettiva e riaffermare con coraggio i valori che ci hanno resi liberi: la ricerca della verità, la bellezza, il rispetto della persona come fine e non come mezzo. Solo così l’Europa potrà continuare a essere un faro di civiltà, capace di guardare al futuro senza rinunciare alla propria anima.



venerdì 4 luglio 2025

Diversità di genere

Negli ultimi anni, le stagioni concertistiche e, più in generale, la programmazione artistica di molte istituzioni culturali sembrano sempre più orientate a privilegiare la cosiddetta "diversità di genere" come criterio principale per la selezione degli interpreti. Il principio, in sé nobile e animato da buone intenzioni, ovvero correggere storiche disparità e dare spazio a voci finora marginalizzate, rischia però di degenerare in un nuovo dogma: quello del "politically correct" a tutti i costi. 

La musica, come ogni arte, vive e si alimenta di qualità, di eccellenza, di talento autentico. La scelta degli interpreti dovrebbe basarsi esclusivamente su questi parametri: la capacità di saper leggere in profondità una partitura, di restituire al pubblico un'interpretazione personale ma rigorosa, di trasmettere emozioni sincere. Quando invece si antepone la "quota rosa" o la "quota diversity" al merito, si tradisce l’essenza stessa dell’arte. La musica diventa così uno strumento di propaganda ideologica e perde la sua funzione primaria: quella di parlare direttamente al cuore e all'intelletto, senza mediazioni.

Il paradosso è che questa forzatura, lungi dal promuovere un’autentica uguaglianza, rischia di svilire proprio coloro che si vorrebbero valorizzare. Una direttrice d'orchestra o una compositrice di talento non ha bisogno di "quote" per essere riconosciuta: ha bisogno che il suo lavoro venga giudicato con lo stesso rigore e lo stesso entusiasmo riservato a qualunque collega uomo. Imporle un posto in cartellone solo per motivi di rappresentanza equivale a sminuire il suo percorso e a insinuare un dubbio sulla legittimità del suo successo.

In definitiva, l'arte dovrebbe essere uno dei pochi ambiti dove l'individualità, la libertà di espressione e la qualità contano più di qualsiasi etichetta o appartenenza. Se davvero si vuole una società più giusta e inclusiva, bisogna partire dall’educazione e dal sostegno reale alla crescita dei talenti, non dalla creazione artificiosa di vetrine. La musica non ha bisogno di essere "politically correct": ha bisogno di essere vera, profonda e libera.

La paura di esprimersi e il coraggio di essere sé stessi

Quando siamo giovani, ma a dire il vero anche da adulti, ci capita spesso di avere paura di dire davvero ciò che pensiamo. Teniamo dentro le nostre idee, i nostri sogni, per paura di sembrare “strani”, di essere giudicati male o di perdere qualche occasione importante. Ma a forza di mettere maschere e filtri, finiamo per dimenticare chi siamo davvero. Ci si convince che il silenzio, la prudenza, il conformismo siano strumenti necessari per garantirsi un posto nel mondo. Eppure, questo atteggiamento nasconde una trappola sottile e pericolosa: la rinuncia progressiva alla propria verità interiore.

La paura del giudizio altrui è una prigione invisibile. Ci impedisce di esprimere idee, emozioni, desideri. Si finisce col vivere in funzione di uno sguardo esterno, dimenticando che ogni individuo è chiamato a costruire la propria strada, non a percorrere sentieri tracciati da altri. La dignità dell’essere umano risiede proprio nella capacità di affermare se stesso, anche a costo di pagare un prezzo in termini di consensi o di opportunità perdute.

Chi sacrifica la propria autenticità per compiacere gli altri rinuncia a quella forza interiore che sostiene lo spirito nei momenti più difficili. La libertà di essere se stessi è la radice di una vita piena e coraggiosa. Solo chi è fedele alla propria essenza può procedere a testa alta, senza farsi schiacciare dal peso di un futuro che ancora non esiste e senza restare imprigionato nei rimpianti di un passato ormai concluso. La vera conquista non è il successo esteriore, ma la pace con se stessi: la certezza di aver vissuto secondo la propria voce, senza tradimenti né maschere. Questo è il fondamento di uno spirito forte e luminoso, capace di attraversare la vita con dignità, gratitudine e coraggio.

Nietzsche diceva che la cosa più importante nella vita è diventare se stessi. Non “essere” come gli altri vogliono, non adattarsi al copione, ma trovare la propria voce e avere il coraggio di usarla. Chi passa la vita a compiacere tutti, alla fine si ritrova vuoto. Con il concetto di "diventare ciò che si è", ci sprona a non piegarci agli schemi imposti dall’esterno. L'individuo autentico non cerca approvazioni facili; egli accetta la solitudine e l’incomprensione come prove necessarie per affermare la propria unicità. Anche  Seneca ci ricorda che non è la vita a essere troppo breve: siamo noi che la sprechiamo. Stiamo sempre a preoccuparci di un futuro che non esiste ancora, o a piangerci addosso per un passato che non possiamo cambiare. E intanto perdiamo il presente, che è l’unica cosa vera che abbiamo. Marco Aurelio, filosofo guerriero, ribadiva che è importante concentrarci su quello che possiamo controllare: il nostro sguardo sulle cose, le nostre azioni quotidiane, la nostra coerenza. Vivere secondo i nostri valori, anche se è scomodo, è la vera forza. 

Quando smettiamo di vivere in funzione degli altri e iniziamo a essere sinceri con noi stessi, succede qualcosa di potente. Iniziamo a sentirci più leggeri, più vivi. Non abbiamo più paura di sbagliare, perché non stiamo più recitando una parte. E anche se perdiamo qualche approvazione, guadagniamo una libertà che vale infinitamente di più. Alla fine, quello che conta davvero non è piacere a tutti, ma riuscire a guardarci allo specchio e sentirci in pace. Come direbbe Nietzsche, impariamo a “danzare” sopra le paure. E come ci ricordano Seneca e Marco Aurelio, torniamo a vivere davvero, momento per momento, senza farci schiacciare da aspettative e fantasmi. La vita è una sola e sprecarla a nascondersi è davvero il modo peggiore di viverla.


"La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri."
Marco Aurelio

Non dobbiamo mai farci schiavi dell’opinione comune, perché il vero bene non risiede nell’approvazione esterna, ma nell’armonia dell’anima con se stessa. Vivere secondo la propria ragione, secondo natura, è il primo fondamento della serenità.

In ogni epoca, l’essere umano ha cercato conferma di sé nello sguardo altrui. L’approvazione sociale, il plauso pubblico, il riconoscimento esterno sono diventati criteri illusori attraverso cui molti misurano il proprio valore. Ma questa tensione verso il consenso nasconde una trappola sottile e pericolosa: la schiavitù dell’anima. Quando affidiamo la nostra serenità alle opinioni degli altri, ci esponiamo a un continuo altalenare emotivo, oscillando tra euforia e abbattimento a seconda dei giudizi ricevuti. Così facendo, smarriamo la nostra essenza più autentica e diventiamo ostaggi di aspettative che non ci appartengono. Il vero bene, invece, risiede nella capacità di vivere in accordo con la propria ragione, quella parte più nobile e luminosa di noi che ci guida verso ciò che è giusto e conforme alla nostra natura. Vivere secondo ragione significa scegliere con consapevolezza, accettare la responsabilità delle proprie azioni e coltivare un’intima coerenza, che non dipende da fattori esterni.

Questa armonia interiore non è frutto di improvvisazione né di semplice istinto: è una conquista quotidiana, fatta di ascolto, di riflessione e di silenzio. Solo quando riusciamo a dialogare con noi stessi, senza bisogno di specchi deformanti, possiamo assaporare quella libertà che è la radice della serenità. Essere liberi dal giudizio esterno non significa ignorare il mondo o rinunciare ai legami umani, ma significa non farsi definire da essi. La vita secondo natura non è isolamento, bensì una partecipazione piena, consapevole e armoniosa, dove ogni gesto nasce da un’intima necessità e non dall’attesa di approvazione.


giovedì 3 luglio 2025

Musica e percezione visiva

Il pubblico contemporaneo, soprattutto quello delle grandi città, appare sempre più prigioniero di una percezione estetica distorta, plasmata da un bombardamento incessante di immagini, slogan, narrazioni precostituite. In questo contesto, la Musica, che dovrebbe essere un’esperienza puramente uditiva, un incontro intimo tra il suono e l’anima, si trasforma in un prodotto da confezionare, vendere e consumare.

Chi frequenta i teatri e le sale da concerto non ascolta più con l’orecchio interiore, ma con lo sguardo: cerca conferme visive, personalità carismatiche, gesti amplificati, abiti scenici, luci e pose. L’udito — il senso più antico, quello che percepisce il mistero, il respiro dell’universo, il non detto — viene relegato a funzione secondaria.

Il pubblico non si accorge di essere diventato un ingranaggio di un sistema che decide in anticipo chi debba essere celebrato, chi osannato, chi dimenticato. L’artista di oggi, per emergere, è spesso costretto a costruire un’immagine che prevalga sul suono, che conquisti la vista, anche a costo di snaturare la propria autenticità musicale. E quando anche la musica stessa viene ridotta a "contorno" di una performance visiva, la sala da concerto rischia di diventare un’arena di esibizioni circensi.

Il risultato è un impoverimento drammatico: la Musica non è più un nutrimento spirituale, un viaggio interiore, un’occasione per confrontarsi con il mistero, il silenzio, la bellezza pura. Si riduce a pretesto per confermare opinioni già pronte, a consolazione superficiale per un pubblico che, in fondo, non cerca più di essere trasformato, ma soltanto rassicurato.

Solo quando riusciremo a rieducare l’ascolto — a restituire centralità al silenzio, all’attesa, alla vulnerabilità dell’udito — potremo sperare di ritrovare la Musica nella sua verità. Una Musica che non ci chiede di guardarla, ma di accoglierla, di abbandonarci al suo flusso, di lasciare che scavi dentro di noi, fino a toccare quell’intima corda dove si nasconde, forse, il senso più autentico della nostra esistenza.

mercoledì 2 luglio 2025

Avviso agli artisti (e a chiunque coltivi la propria interiorità)


Circondarsi soltanto di persone che risuonano con le nostre qualità più autentiche non è un gesto di arroganza, ma un atto di tutela spirituale. Nell’arte, come nella vita, ogni incontro lascia un’impronta. Una conversazione, uno sguardo, una stretta di mano possono agire come semi, capaci di germogliare in noi conseguenze impreviste.
Chi si avvicina a te per calcolo, per convenienza o per tornaconto, porterà inevitabilmente con sé una vibrazione dissonante, che a lungo andare può avvelenare anche l’ispirazione più pura. La tentazione di frequentare chi "potrebbe esserci utile" è forte, soprattutto in un ambiente competitivo come quello artistico. Ma ogni compromesso, anche solo sociale, è un piccolo tradimento al nostro nucleo più vero.
Ricorda che anche un semplice gesto, una stretta di mano o un sorriso complice è una forma di contratto invisibile, un consenso silenzioso. Se non è sincero, rischia di diventare un vincolo che ci lega a energie contrarie al nostro cammino.
Per questo è meglio scegliere con fermezza chi accogliere nel proprio orizzonte umano: chi ci ispira fiducia al primo sguardo, chi ci fa vibrare di una gioia quieta e profonda. Non farti sedurre dal miraggio dell'opportunità immediata; coltiva invece relazioni che nutrono la tua anima e proteggono la tua integrità.
Solo così l'artista (e l'uomo) potrà camminare leggero, fedele a se stesso e al mistero che custodisce.