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lunedì 28 luglio 2025

La fine dello stile e la crisi dell'interpretazione: riflessioni sulla direzione d'orchestra nell'epoca della globalizzazione

Nel panorama musicale contemporaneo, le orchestre di tutto il mondo hanno raggiunto livelli tecnici straordinari. Decenni di scambi internazionali, la mobilità crescente, la standardizzazione della formazione, hanno permesso a molti esecutori di perfezionarsi come mai prima. Tuttavia, a questo progresso tecnico non è seguito un uguale sviluppo dell'interpretazione. La profondità musicale, lo stile, la sensibilità storica e culturale, sembrano essersi dissolti nella ricerca ossessiva della perfezione formale e della calibrazione dell'esecuzione.

La tecnica, un tempo strumento al servizio dell'espressione, si è trasformata in fine. Si ascoltano versioni impeccabili ma fredde, spesso identiche fra loro, dove ogni inflessione personale è stata espunta in favore di una neutralità globale. Il risultato è un repertorio museificato, privato di rischi, riprodotto da orchestre eccellenti ma anonime, sotto la guida di direttori mediocri che paiono più manager che artisti.

Questo appiattimento deriva anche dalla morte degli stili. Le scuole nazionali, con le loro sonorità, le loro prassi, i loro idiomi interpretativi, sono state soppiantate da un modello internazionale imposto da un'élite discografica e accademica. Il suono caldo e scuro delle orchestre mitteleuropee, il lirismo italiano, l'impeto russo, sono stati sostituiti da un'esecuzione standardizzata, tecnicamente perfetta ma spiritualmente vuota.

Un tempo, il direttore d'orchestra incarnava una figura carismatica. La sua era una funzione simbolica, quasi sacerdotale. Grandi interpreti come Furtwängler, Toscanini, Karajan, Celibidache imponevano visioni personali e affrontavano il rischio, guidando le loro orchestre con un'autorità costruita nel tempo. Oggi, quella figura è diventata mitologica. Il direttore moderno è divenuto pressoché ovunque un "assemblatore" chiamato a costruire un'esecuzione in pochi giorni (se non in poche ore) seguendo criteri di efficienza e velocità.




Anche le logiche di potere sono cambiate. Le posizioni artistiche sono sempre più spesso assegnate non in base al merito, ma per motivi economici e secondo gli interessi di grandi agenzie e circuiti internazionali, in una commistione non più distinguibile. La musica è gestita come un prodotto da confezionare e distribuire, non come un'esperienza viva da rinnovare ogni volta.

Emblematico è il caso della Cina, ma anche di altri Paesi asiatici. Grazie a forti investimenti e a un modello educativo disciplinato e gerarchico, in pochi decenni hanno raggiunto livelli tecnici altissimi. Tuttavia, questa crescita non è stata sempre accompagnata da un radicamento culturale altrettanto profondo che avrebbe richiesto forse qualche secolo. Queste orchestre riproducono modelli occidentali, spesso senza una reale interiorizzazione e riducendo l'interpretazione a una ripetizione efficiente.

Max Weber, uno dei fondatori dello studio moderno della sociologia, in una conferenza del 1917 parlò di "disincanto del mondo" per descrivere gli effetti della razionalizzazione moderna. La musica colta oggi vive qualcosa di simile. L'orchestra, da organismo espressivo, si è trasformata in macchina e il direttore non è più guida umana e spirituale, ma gestore del tempo (preziosissimo) e delle risorse. L'ascoltatore, abituato alla perfezione digitale, non accetta più l'imprevisto, la sbavatura, la tensione autentica. Tutto deve essere fluido, omogeneo e immediatamente riconoscibile; di sovente, una forma perfetta senza contenuto. L'elaborazione del pensiero e del contenuto richiede tempo, breve ma tale.

La sfida allora è quella di recuperare l'anima della musica. Non si tratta di rifiutare la tecnica o la modernità, ma di reimparare a rischiare. Di accettare che l'arte vera vive di squilibri, di intuizioni, di tensioni. Il direttore deve tornare a essere interprete, e non esecutore del consenso. L'orchestra deve riscoprire il proprio ruolo di corpo vivo e pensante. Il pubblico va coinvolto, educato, guidato verso un ascolto attivo, non solo intrattenuto.

Una mia riflessione più profonda, quasi esistenziale. La musica, come la vita, non può essere ridotta a un esercizio di perfezione. Vive, invece, nel battito incerto del cuore umano e nella tensione fra ciò che è scritto e ciò che è sentito, fra la fedeltà al testo e il coraggio dell'interpretazione. È proprio in questo spazio fragile, in cui l'esecutore si espone al rischio, che nasce la vera arte: non nel controllo assoluto, ma nell'errore che apre orizzonti inattesi, nell'imperfezione che rivela una presenza viva, nel gesto unico e irripetibile che sfugge alla norma.

Sbagliare, in musica come nella nostra esistenza, è un atto di affermazione profonda: significa che siamo presenti, che ci mettiamo in gioco, che accettiamo la caducità del tempo e la fallibilità della nostra condizione. Quando, invece, ogni esecuzione diventa prevedibile, ogni dettaglio programmato, ogni differenza cancellata in nome della precisione, la musica perde la sua dimensione umana, si fa simulacro, si chiude in una perfezione morta, priva di rischio, di emozione, di verità.

Il mondo musicale contemporaneo, per quanto tecnicamente avanzato, pare aver dimenticato che la grande interpretazione nasce non dalla paura dell'errore, ma dalla libertà di scegliere, dalla possibilità di fallire, dalla forza di dire qualcosa di personale anche a costo di infrangere le regole. È in questa tensione che risiedono la magia del gesto interpretativo e l'autenticità del rapporto con l'opera. Ecco perché, oggi più che mai, occorre recuperare un pensiero musicale che non abbia timore della fragilità, che non insegua l'efficienza come valore assoluto, ma che riconosca nello sbaglio il segno della vita che pulsa.

Perché, in fondo, sbagliare è vivere e se non si sbaglia, se tutto è già previsto, misurato, congelato, allora significa che si è già morti, non solo come interpreti, ma anche come esseri capaci di percepire, sentire, pensare e trasformare il mondo attraverso il suono.


«La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita alle quali si sottostà. Essa significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza, cioè che non sono in gioco, in linea di principio, delle forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare gli spiriti o per ingraziarseli, come fa il selvaggio per il quale esistono potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e il calcolo razionale. Soprattutto questo è il significato dell'intellettualizzazione in quanto tale.»

(Max Weber, La scienza come professione)

lunedì 21 luglio 2025

Il Fus. Musica, politica e affari

Il sostegno pubblico alla musica in Italia, attraverso il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS), è tornato al centro dell’attenzione pubblica e mediatica in seguito alla controversa nomina del direttore d'orchestra russo Valery Gergiev a ruoli di rilievo in istituzioni musicali italiane. Le critiche emerse non si limitano alla figura del musicista, noto per le sue posizioni filo-Cremlino, ma investono più ampiamente il sistema culturale italiano, mettendo in luce molte contraddizioni strutturali e il crescente intreccio tra politica, potere economico e scelte artistiche.

Il FUS, istituito nel 1985, rappresenta lo strumento principale con cui lo Stato italiano finanzia lo spettacolo dal vivo. La maggior parte dei fondi è stabilmente destinata a fondazioni lirico-sinfoniche, teatri d’opera e festival storici. L’analisi dei dati più recenti (MiC, SIAE 2023) mostra una netta predominanza di repertori ottocenteschi e novecenteschi, con una presenza marginale di compositori contemporanei e giovani interpreti. Nonostante gli obiettivi dichiarati di pluralismo e promozione della creatività, il sistema favorisce una programmazione che ripropone ciclicamente lo stesso repertorio e gli stessi nomi. In questo contesto, le istituzioni sembrano muoversi più secondo logiche di mantenimento dei contributi che di apertura artistica.

L’invito a Valery Gergiev, artista noto non solo per il suo talento ma anche per il suo sostegno esplicito alla leadership politica russa, ha sollevato interrogativi profondi. Quali sono oggi i criteri con cui si effettuano le scelte artistiche nelle istituzioni finanziate con denaro pubblico? E soprattutto, quanto queste scelte rispondono a motivazioni culturali piuttosto che a equilibri politici o relazioni internazionali?

Il caso ha messo in evidenza come la cultura possa diventare terreno di ambigue convergenze, dove la qualità artistica si intreccia con dinamiche diplomatiche, convenienze economiche e strategie di visibilità. In un momento in cui l’Europa discute il valore dell’autonomia culturale, la vicenda Gergiev pone l’Italia davanti a un bivio: continuare a sostenere istituzioni che operano scelte in apparente contraddizione con i valori democratici e pluralisti, o interrogarsi sul senso e sugli obiettivi reali del finanziamento pubblico. L’episodio Gergiev non è un caso isolato, ma un indicatore di un sistema in cui la coerenza tra principi e pratiche appare sempre più debole. Mentre tantissimi giovani artisti faticano a trovare spazio e la musica contemporanea è relegata ai margini, le risorse pubbliche continuano a fluire verso strutture che, nei fatti, riproducono una visione statica, chiusa e sempre più permeabile alle logiche del potere.

La domanda cruciale che emerge è dunque la seguente: quale idea di cultura vogliamo sostenere con i fondi pubblici? La risposta non può essere rimandata. 

Suonare dritti, anche quando il vento gira

Nel mondo della musica – e più in generale dell’arte – la questione della libertà personale e dell’integrità intellettuale è centrale. Non si tratta solo di capacità tecnica, né di creatività o talento, ma della qualità più difficile da mantenere in ogni tempo: la coerenza con sé stessi.

In un contesto culturale sempre più orientato al consenso immediato e al riconoscimento pubblico, molti artisti, spesso dotati e brillanti, scelgono la via più rapida per ottenere visibilità: seguire il gusto dominante, adattarsi alla moda del momento, dire ciò che ci si aspetta di sentire. Si mimetizzano in contesti rassicuranti, diventano voci intercambiabili in un panorama estetico e ideologico sempre più omogeneo. Questa non è libertà. È opportunismo culturale. È trasformare l’arte in una moneta da scambiare per ottenere accettazione, premi, inviti. È confondere il coraggio con l’astuzia, la profondità con la convenienza. Ma l’arte, la vera arte, non nasce per compiacere. Nasce per interrogare, per mettere in discussione, per rivelare.

Il pensiero indipendente, in ambito artistico, non è una posa romantica, né un vezzo intellettuale. È un atto di responsabilità. Significa rifiutare la logica del compromesso, anche quando il compromesso è ben pagato, ben premiato e ben visto. Essere artisti oggi richiede una schiena dritta, non solo un curriculum brillante. La fedeltà a un’estetica personale, a un messaggio autentico, implica spesso il rischio dell’isolamento. Non sempre ciò che è vero è compreso subito. Non sempre ciò che è necessario è premiato. Ma chi sacrifica la propria voce per adattarsi alle aspettative esterne, alla lunga, non si ascolta più nemmeno da dentro.

Ogni epoca ha i suoi “centri di gravità culturali”, spesso non dichiarati: gruppi, ambienti, ideologie, canoni estetici. Spazi che, per essere frequentati, richiedono l’adesione più o meno esplicita a una linea. Chi si discosta viene lentamente marginalizzato. Non per censura diretta, ma per un meccanismo più subdolo: l’esclusione per disallineamento. In questo scenario, il gesto più rivoluzionario resta quello più semplice e raro: essere fedeli alla propria voce, anche quando è fuori moda. Continuare a suonare, a scrivere o dipingere secondo ciò che si sente giusto, anche quando tutto intorno spinge a cambiare rotta. La storia dell’arte è piena di figure che non si sono piegate. Alcune sono state ignorate in vita, altre criticate, ostacolate. Ma sono proprio quelle voci, spesso solitarie, a essere ricordate, studiate, riprese. Non per l’abilità di stare al passo con i tempi, ma per la forza di averli attraversati senza snaturarsi. È da qui che nasce la vera forza di un artista: non dall’aver detto ciò che era comodo, ma dall’aver detto ciò che era necessario. Non dall’essersi adattato al contesto, ma dall’aver lasciato un’impronta riconoscibile e vera.


Rimanere dritti, anche quando il vento cambia, è forse la sfida più difficile, ma è anche l’unica che valga davvero la pena di affrontare.

domenica 20 luglio 2025

Perché il titolo di studio nelle arti andrebbe abolito

 

Parlo da musicista, ma ciò che dico vale per chiunque viva nel mondo dell’arte: pittori, attori, scrittori, registi, esecutori. Dopo anni trascorsi tra studi formali, ambienti accademici e realtà artistiche indipendenti, ho maturato una convinzione tanto netta quanto impopolare: il titolo di studio nelle discipline artistiche è inutile. Anzi, dannoso. E dovrebbe essere abolito.


Un titolo che non dimostra nulla

Sin da quando mi iscrissi al conservatorio, sapevo che una laurea, allora diploma, non mi avrebbe aperto le porte del mondo professionale. Nella migliore delle ipotesi sapevo che sarebbe stato utile per compilare moduli e partecipare a concorsi pubblici. Nessuno mi ha mai chiesto un diploma agli inizi della mia vita musicale, eccezion fatta per insegnare in conservatorio, dove capitai per caso a seguito di un invito del mio maestro di Composizione, Bruno Bettinelli. Il mio valore, come quello di tanti colleghi, si è costruito altrove: nelle infinite ore di studio vero, nei fallimenti, nei primi concerti in sale semivuote, nelle collaborazioni, nelle emozioni condivise con il pubblico. Tutto questo non figura su un pezzo di carta.

La musica non è un mestiere certificabile

La musica, come le arti in generale, non è un mestiere codificabile. Non puoi quantificare la sensibilità, la creatività, l’autenticità. Eppure, oggi ci si ostina a voler “laureare” anche la spontaneità. Si pretende che il talento passi attraverso la burocrazia. Si trasformano strumenti e corpi in fascicoli, passioni in CFU, ispirazioni in esami a tempo. È una contraddizione evidente: le accademie rilasciano titoli, ma il mondo reale cerca artisti. E gli artisti veri, spesso, quei titoli non li hanno. Non perché siano “ignoranti” o “impreparati”, ma perché hanno scelto un’altra via, fatta di pratica, di ascolto, di contatto diretto con l’arte viva, non mediata dalla forma scolastica. Questa distorsione non riguarda solo la musica. Un pittore non ha bisogno di un diploma per creare opere potenti. Uno scrittore non deve aver frequentato un corso di laurea in lettere per scrivere un romanzo che emoziona e resta. Un attore non è più credibile perché ha una pergamena, ma perché sa stare in scena. Eppure, anche in questi ambiti, si insiste nel voler certificare l’arte, incasellarla, “validarla” attraverso percorsi universitari che spesso disincentivano la libertà anziché nutrirla.

L’unica utilità: i concorsi pubblici

L’unico contesto dove il titolo artistico conta è la pubblica amministrazione. Vuoi insegnare musica nelle scuole? Ti serve la laurea, anche se hai inciso dieci album. Vuoi partecipare a un bando regionale per un progetto culturale? Devi allegare il tuo diploma, anche se la tua carriera parla da sola. Il paradosso è che la scuola e lo Stato, che dovrebbero valorizzare il merito artistico, lo filtrano attraverso una griglia burocratica incapace di riconoscerlo davvero. E qui arriva l’aspetto più frustrante: anche con un titolo, il merito resta subordinato a titoli secondari, punti extra, corsi obbligati. Non conta quanto sai fare, ma quanto sei “in regola”. Così vince non il migliore, ma il più conforme.

Perché abolire il titolo di studio nelle arti

Arrivati a questo punto, io credo che il titolo di studio nelle arti dovrebbe essere essere abolito, o quantomeno privato del suo valore legale. Non serve a certificare la qualità e non aiuta i veri talenti. Non facilita l’accesso al lavoro, ma serve solo a creare una classe di artisti formalizzati, ma spesso svuotati di spontaneità. Serve a giustificare un sistema che premia l’aderenza alle regole, non l’originalità. La formazione artistica deve esistere, certo, ma deve essere libera, pluralista, non vincolata al titolo. Studiare in un conservatorio, in un’accademia o in una scuola di teatro deve essere una scelta per crescere, non una tappa obbligata per “ottenere il foglio”.

Conclusione: arte e burocrazia non possono convivere

L’arte non è un settore come gli altri. È un linguaggio, un’urgenza, una forma di conoscenza diversa. Tentare di inquadrarla dentro le logiche accademiche è una forzatura che svilisce sia l’arte che l’istruzione. Continuare a farlo, a mio avviso, è un danno culturale e sociale. Non chiedo più riforme o riconoscimenti. Chiedo qualcosa di più radicale: che si riconosca l’inutilità del titolo di studio in ambito artistico. Che lo si abolisca, o lo si svuoti del suo potere coercitivo. Solo così potremo restituire all’arte la sua funzione autentica: quella di parlare al mondo senza dover passare da un ufficio protocollo.

sabato 19 luglio 2025

Verità, forma e coscienza musicale. Il suono e la necessità.


Non c'è perdono nella musica. Solo necessità.

La musica non consola, non assolve, non salva. Non è un rifugio, è una disciplina che pretende coerenza, attenzione, giustezza. Non nel senso morale, ma in quello formale e fisico. In musica, ogni elemento ha un posto definito: ogni nota, ogni pausa, ogni respiro. Nulla si aggiusta dopo, ma tutto è adesso, perché ogni incertezza si sente e si ricorda.

Il musicista non lavora per il piacere, ma per la chiarezza e la chiarezza non è mai comoda, perché espone, misura, svela. Non offre protezione, al contrario, rende nuda la struttura e non permette al gesto di nascondersi dietro l'intenzione, perché ogni azione è rintracciabile ed ogni omissione pesa.

In questo paesaggio severo, l'errore tecnico è umano e a volte persino fertile: può aprire strade, rivelare punti ciechi, restituire verità non previste. Ma un suono esatto privo di intenzione è imperdonabile. Una nota corretta senza anima è un sacrilegio, perché finge la vita senza sopportarne il peso. È una menzogna metrica, un gesto morto, una simulazione che tradisce la musica più di qualsiasi imprecisione.

La musica non è mai pura ripetizione, ma è scelta consapevole, perché ogni esecuzione è un'esposizione. Il musicista autentico non interpreta, ma rischia; non riproduce, ma interroga. Ogni nota diventa testimone ed ogni frase musicale una dichiarazione d'esistenza. Suonare senza anima equivale a parlare senza pensiero. È come nominare l'essere senza esserci.

A un livello ancora più profondo, dirigere un'orchestra rappresenta un grado ulteriore di responsabilità. Non si tratta di comandare, ma di reggere la complessità del suono altrui. Il direttore custodisce l'intenzione collettiva, cerca un respiro comune nel disaccordo, tiene in vita un'architettura sonora che esiste solo se ognuno partecipa all'ascolto dell'altro. Dirigere richiede rigore, ascolto, capacità di scomparire nel gesto. Non è una figura che si impone, ma che organizza, sostiene, trasmette coerenza. La forza che esercita è senza ostentazione, la lucidità non è dominio, ma puro servizio.

La musica è, nella sua essenza più austera, l'arte della necessità. Non rappresenta ciò che si vuole, ma ciò che non può non essere. In questo spazio è escluso il perdono, perché è esclusa la finzione e ciò che davvero conta è la verità temporanea e totale che ogni esecuzione deve tentare di realizzare. Non si può dire: si può solo suonare. Quando accade, senza garanzia, senza promessa, ogni altra cosa tace. Tutto è già lì.

L'arte musicale non ha la solidità della scultura, né la permanenza della parola scritta. Vive nel tempo, si consuma nell'atto, e proprio per questo esige una presenza assoluta in un frammento effimero. Ogni nota è irripetibile, ogni gesto si compie una volta sola. Il valore di un'esecuzione non sta nella sua più o meno particolare riproducibilità, ma nella sua intensità. Un suono non è mai per sempre, ma può essere per intero. E quel breve istante in cui tutto coincide (il gesto, la forma, l’intenzione, l’ascolto) vale più di ogni durata.

La musica, quando è vera, non lascia un oggetto, ma lascia un varco, un'apertura nel tempo, una fessura nell'identità. Lascia un segno che non si vede, ma che insiste e soprattutto lascia un varco in chi ascolta, in chi suona, in chi cerca. Questo varco rimane aperto e silenzioso, ma pronto a suonare ancora, solo se qualcuno avrà il coraggio di rischiare un viaggio misterioso ancora una volta, tutto per una sola nota.





giovedì 17 luglio 2025

Milano non è da tempo la mia città

Milano viene spesso celebrata come simbolo di modernità, innovazione e progresso urbano. È il “motore d’Italia”, la “capitale morale”, la città delle opportunità. Eppure, per chi la abita quotidianamente, soprattutto per chi appartiene alla classe media o popolare, questa narrazione è sempre più difficile da riconoscere nella realtà. Negli ultimi due decenni, Milano ha subito una trasformazione urbana radicale. Quartieri un tempo popolari sono stati “riqualificati” in nome della modernità, trasformandosi in zone d’élite dove il costo della vita è insostenibile per la maggioranza dei cittadini. Il prezzo degli immobili è salito alle stelle, spinto da investimenti speculativi e da una politica urbanistica che ha privilegiato i grandi operatori immobiliari a scapito dell’interesse pubblico. La città è diventata terreno fertile per fondi di investimento, architetti-star e developer internazionali, mentre il tessuto sociale tradizionale si è sfilacciato. Milano si è così trasformata in una città vetrina, dove interi quartieri del centro sono occupati da boutiques di lusso, ristoranti fotocopia e grattacieli scintillanti di banche e multinazionali. Un palcoscenico urbano pensato più per attrarre capitali e turisti che per rispondere ai bisogni concreti dei suoi abitanti. Di sera, questi luoghi diventano deserti urbani: il “deserto dei Tartari” di una modernità senz’anima. La tanto declamata “rigenerazione urbana” si è spesso tradotta in un appiattimento paesaggistico. Spianate di cemento, piazze senz’ombra, arredo urbano che punta sull’effetto wow ma dimentica il benessere reale. Dove c’erano alberi e vita di quartiere, oggi si trovano superfici bruciate dal sole, spazi privi di accoglienza, ostili alla socialità spontanea. Il verde, quando c’è, è decorativo, non vissuto. E la sostenibilità si limita troppo spesso a slogan e interventi simbolici: piste ciclabili disegnate a caso, tavoli da ping pong sull’asfalto, panchine arcobaleno, ma nessuna vera politica di redistribuzione dello spazio urbano.

Milano è amministrata da anni da una coalizione che si definisce di centrosinistra. Ma cosa resta di “sinistra” quando le priorità amministrative coincidono con quelle del grande capitale? Il paradosso è che, mentre si dipingono strisce colorate e si celebrano eventi simbolici, si continua a governare con la logica del mercato, favorendo le stesse dinamiche di esclusione e rendita urbana che hanno storicamente contraddistinto le amministrazioni più conservatrici. La verità è che la differenza tra destra e sinistra, almeno sul piano urbano, si è assottigliata fino quasi a scomparire. Il neoliberismo ha permeato ogni forma di governo locale, svuotando la politica di ogni capacità redistributiva. L’amministrazione “progressista” milanese sembra più interessata a mantenere la propria immagine internazionale e attrattiva per gli investitori, che a costruire una città giusta, accessibile, equa. Una città non è solo un insieme di infrastrutture, servizi, eventi. È fatta di relazioni, memoria, spazi comuni, possibilità di vivere dignitosamente. Quando la città diventa ostile a chi non può permettersi di consumarla, quando il centro si svuota di residenti e la periferia si riempie di disagio, quando la bellezza è riservata a chi può pagarla, allora non siamo più davanti a una città vivibile, ma a una messa in scena.

Milano è diventata una città senza anima: brillante, ma vuota; efficiente, ma diseguale; moderna, ma profondamente ingiusta. E se un’amministrazione, per quanto onesta, non ha la sensibilità di vedere questa trasformazione e contrastarla, allora ha già perso il contatto con la sua missione più autentica: governare per il bene comune, non per l’interesse di pochi.

mercoledì 16 luglio 2025

𝐋𝐚 𝐦𝐢𝐧𝐚𝐜𝐜𝐢𝐚 𝐬𝐢𝐥𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐬𝐚: 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐥𝐚 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐮𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐦𝐨𝐜𝐫𝐚𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐈𝐬𝐥𝐚𝐦 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐯𝐞𝐫𝐢𝐬𝐜𝐞 𝐞 𝐬𝐩𝐞𝐠𝐧𝐞 𝐥𝐞 𝐚𝐫𝐭𝐢 𝐨𝐜𝐜𝐢𝐝𝐞𝐧𝐭𝐚𝐥𝐢.

La storia dell’Europa è inseparabile dalla sua arte. La pittura rinascimentale, la scultura classica, l’opera lirica, la musica sinfonica, la filosofia visiva di registi e performer: tutto nasce da un principio fondamentale, la libertà assoluta di espressione. Libertà di offendere, di scioccare, di rappresentare Dio, il corpo, la morte, l’eros.

Oggi, però, questa libertà non è più scontata. La cosiddetta “diffusione democratica” dell’Islam, spesso vista ingenuamente come semplice pluralismo religioso, è in realtà un cavallo di Troia che minaccia alla radice la vitalità estetica e culturale occidentale.
𝐔𝐧 𝐫𝐢𝐟𝐢𝐮𝐭𝐨 𝐞𝐬𝐭𝐞𝐭𝐢𝐜𝐨 𝐭𝐨𝐭𝐚𝐥𝐞
L'Islam tradizionalista non si limita a non apprezzare l’arte occidentale: la rifiuta in blocco. Nelle periferie europee dove le comunità musulmane sono ormai maggioranza, la stragrande maggioranza degli abitanti vive completamente scollegata dal mondo artistico e musicale. La pittura, la danza, la musica, la scultura sono percepiti come strumenti di corruzione morale, come distrazioni vietate dalla Sunna e dal Corano.
Non si tratta di differenze di gusto, ma di un vero rigetto antropologico. In molti quartieri francesi, ad esempio, le scuole di musica chiudono perché considerate “luoghi di peccato”. In Svezia e in Germania, festival musicali hanno dovuto annullare artisti o cambiare programmi per “rispettare la sensibilità delle comunità locali”.
𝐆𝐥𝐢 𝐞𝐩𝐢𝐬𝐨𝐝𝐢 𝐝𝐢 𝐜𝐞𝐧𝐬𝐮𝐫𝐚: 𝐬𝐞𝐠𝐧𝐢 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐬𝐚
Gli esempi concreti si moltiplicano. Nel 2004, Theo van Gogh, regista olandese, fu brutalmente assassinato ad Amsterdam per aver diretto un cortometraggio che criticava il trattamento delle donne nell’Islam. Non si tratta di un semplice atto criminale isolato: è il simbolo di un clima in cui l’artista deve temere per la propria vita se osa toccare temi religiosi.
Nel 2006, il mondo intero ricorda le proteste violente scatenate dalle vignette danesi su Maometto, con ambasciate incendiate, minacce di morte e intimidazioni a disegnatori e giornalisti. Queste minacce non furono semplici manifestazioni di dissenso, ma veri e propri attacchi mirati alla libertà artistica e satirica.
Nel 2015, l’attacco a Charlie Hebdo sancì definitivamente che in Europa non esiste più un diritto di satira assoluto quando si tratta di Islam. Gli artisti, oggi, si autocensurano. Gallerie d’arte rinunciano a esporre opere potenzialmente offensive. Case editrici evitano pubblicazioni scomode. Questa è la prova più tragica che la democrazia liberale sta cedendo di fronte alla minaccia islamista.
𝐔𝐧’𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐧𝐭𝐚 “𝐜𝐨𝐥𝐩𝐚”
La società occidentale ha sviluppato la musica come linguaggio universale di libertà. Ha esaltato la danza come celebrazione del corpo. Ha reso la pittura un atto sacro e al tempo stesso scandaloso. Ma in una società dove intere masse di immigrati considerano queste espressioni peccaminose, il futuro dell’arte è segnato.
Nei quartieri dove la sharia di fatto sostituisce la legge civile (da Molenbeek a certe zone di Parigi o Malmö), le donne vengono minacciate se osano partecipare a corsi di danza. I musicisti sono costretti a suonare in clandestinità. I teatri chiudono o cambiano programmazione per non “provocare” la comunità.
A rendere ancora più grave questa deriva, si aggiunge un fatto recentissimo e clamoroso: nel Regno Unito sono stati ufficialmente riconosciuti tribunali islamici (Sharia courts), autorizzati a dirimere dispute civili e familiari all’interno delle comunità musulmane. Un precedente pericolosissimo e decisamente imprevidente, che segna un cedimento storico. Con questa concessione, non solo si frammenta il principio della legge unica per tutti, ma si legittima una giurisdizione parallela che pone le basi per future rivendicazioni ancora più invasive. Oggi si tratta di matrimoni e eredità; domani potrà riguardare diritti fondamentali, inclusa la libertà artistica e di espressione.
𝐋’𝐢𝐥𝐥𝐮𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐠𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐫𝐭𝐢𝐬𝐭𝐢𝐜𝐚
L’idea che si possa creare un “dialogo estetico” con chi rifiuta alla radice la libertà artistica è pura utopia. Non si può costruire un ponte con chi considera l’arte un atto blasfemo. Non si può integrare chi, educato a considerare il corpo una fonte di vergogna, demonizza la danza e la scultura.
La retorica dell’integrazione culturale non fa che mascherare una lenta ritirata. L’arte non è un lusso decorativo: è la linfa vitale di una civiltà. Quando si rinuncia all’arte per non “offendere”, si rinuncia a se stessi.
𝐂𝐨𝐧𝐜𝐥𝐮𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞: 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐨 𝐬𝐨𝐜𝐜𝐨𝐦𝐛𝐞𝐫𝐞
L’Islam, nella sua versione più rigida e ortodossa che si diffonde anche grazie alla democrazia, rappresenta oggi una minaccia reale, non astratta. Non è un pericolo che si manifesti con divieti ufficiali o leggi immediate: si diffonde come un veleno lento, che impone l’autocensura, la paura, la sottomissione psicologica.
Il caso dei tribunali islamici in UK non è un dettaglio burocratico: è la prova concreta che l’Occidente sta svendendo i suoi principi fondanti, legittimando un sistema giuridico estraneo e potenzialmente incompatibile con la libertà individuale.
Se l’Europa tutta, e con essa il nostro mondo occidentale non avrà il coraggio di dire con forza che la libertà artistica è un valore non negoziabile, se non difenderà con orgoglio la musica, la pittura, la scultura e la satira, finirà per trasformarsi in un deserto culturale, dove la bellezza sarà vista come un peccato, e l’arte come una colpa da espiare.
𝐋𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐥𝐭𝐚 è 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐥𝐢𝐜𝐞: 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐥’𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐞 𝐥𝐚 𝐥𝐢𝐛𝐞𝐫𝐭à, 𝐨 𝐚𝐫𝐫𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐬𝐢 𝐚𝐥 𝐬𝐢𝐥𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨 𝐠𝐫𝐢𝐠𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐨𝐬𝐜𝐮𝐫𝐚𝐧𝐭𝐢𝐬𝐦𝐨.



martedì 15 luglio 2025

Il silenzio che ci avvolge

Abbiamo cresciuto giovani musicisti convinti che la musica fosse un atto di verità. Un varco attraverso cui diventare più umani, un’occasione per imparare a guardare oltre sé stessi, a toccare la fragilità propria e altrui. Li abbiamo accolti con gli occhi accesi, colmi di fame e di stupore, certi che avrebbero difeso la parte più luminosa e viva di loro stessi. In molti abbiamo creduto senza riserve. Abbiamo dato tempo, energie, pazienza. A qualcuno abbiamo consegnato parti profonde di noi, convinti di trovarci davanti anime capaci di restituire al mondo bellezza e compassione. Credevamo che la musica li avrebbe spinti a essere creature vigili, attente, capaci di ascoltare non solo i suoni, ma i silenzi che abitano ogni essere umano. Sfortunatamente, col tempo abbiamo assistito a un lento tradimento. Quel fuoco iniziale si è consumato sotto il peso di un bisogno famelico di approvazione e l’urgenza di dire qualcosa di autentico ha ceduto il passo alla smania di essere visti, di raccogliere applausi, di costruire un’immagine inattaccabile. La musica è diventata un trofeo, un’etichetta da ostentare, un modo per mettere sé stessi al centro, sempre e comunque.

Come molti, ho dato molto a chi pensavo avesse un cuore vivo. Ho difeso sensibilità che credevo vere, ho investito fiducia, ho creduto nella promessa di un'anima nobile, ma ho trovato cuori di vetro: brillanti fuori, ma fragili e chiusi, incapaci di vedere davvero chi avevano accanto. Oggi vedo vite musicali impeccabili, successi confezionati con precisione maniacale, carriere che scorrono come macchine ben oliate. Ma dietro quei sorrisi studiati si nasconde un vuoto che pesa più di qualsiasi sconfitta. Un silenzio freddo, un’assenza che avvolge ogni nota. Non c’è più ascolto, non c’è più dono, non c’è più anima. Solo la fame di perfezione, di essere riconosciuti e contati come merce rara. A volte, di potere.

Ed è qui che si svela l’inganno più grande: chi vive per apparire si condanna a non vedere più niente. Né la bellezza che passa accanto, né la mano tesa dell’altro, né le proprie crepe più profonde. La musica si può insegnare e la tecnica si può perfezionare fino a diventare un’ossessione. Ma la capacità di restare veri, quella di non rinunciare alla propria umanità per un applauso in più, non si può imporre. È una scelta quotidiana, scomoda, spesso dolorosa, che pochi trovano il coraggio di fare.

E allora mi chiedo, con un’amara lucidità: a cosa serve conquistare ogni palco, se alla fine non resta più nessuno da abbracciare? Se non resta un volto da guardare, un cuore da sfiorare, un’anima a cui confidare il silenzio tra due note? Forse, in quel vuoto, si nasconde la domanda più importante. E forse, in quel silenzio, si sente la musica più crudele: quella che ci racconta chi siamo davvero, quando smettiamo di essere umani.

domenica 13 luglio 2025

Il terribile silenzio degli artisti nel mondo occidentale

In un’epoca segnata da guerre, disuguaglianze crescenti, crisi climatiche e derive autoritarie, il silenzio degli artisti occidentali suona come un eco assordante. L’artista, un tempo coscienza critica della società, sembra essersi rifugiato in un individualismo estetico, in una ricerca di bellezza sterile, oppure nell’illusione di una neutralità che diventa, in realtà, complicità.

Il sistema dell’arte è oggi profondamente legato al mercato, ai grandi collezionisti, alle sponsorizzazioni delle multinazionali. Esporsi significa rischiare l’esclusione, perdere visibilità o sostegno economico. Così, la libertà di espressione, che in Occidente è un diritto garantito, viene svuotata dall’interno, trasformandosi in disimpegno. Ma c’è un silenzio ancora più grave: quello nei confronti dell’Islam radicale. Negli ultimi anni, l’espansione di movimenti integralisti islamici in Europa è diventata una delle questioni più delicate e preoccupanti. La paura di offendere, di essere accusati di islamofobia, di attirare minacce o violenze, ha spinto molti intellettuali e artisti a non prendere posizione. Si preferisce tacere, rifugiarsi in formule generiche come “pace” e “tolleranza”, ignorando che la tolleranza non può significare accettazione di pratiche e ideologie che negano diritti fondamentali, in primo luogo quelli delle donne e delle minoranze.

Il caso dell’Inghilterra è emblematico: la creazione e il riconoscimento, anche se solo in materie civili e di diritto familiare, dei tribunali islamici (sharia courts), ha generato un precedente inquietante. In nome di un multiculturalismo mal interpretato, si è arrivati a legittimare sistemi giuridici paralleli che mettono a rischio l’uguaglianza davanti alla legge, un pilastro essenziale delle democrazie occidentali. 

A questa ipocrisia generalizzata non sfugge nemmeno il mondo della musica. Oggi assistiamo a un paradosso: la musica, che dovrebbe essere voce universale di libertà, spesso si piega al calcolo politico o al conformismo. Un esempio lampante è la recente decisione di permettere a Valery Gergiev, direttore d'orchestra notoriamente vicino al regime di Putin, di tornare a dirigere in Italia, come se fosse un gesto di grande “apertura” o un atto di alto impegno etico.


Dietro questa apparente concessione “tollerante” si cela una profonda ipocrisia: mentre si puniscono o censurano artisti dissidenti, o si ostracizzano voci scomode, si accolgono figure che non hanno mai nascosto il loro sostegno a governi autoritari. Si vende come “arte oltre la politica” ciò che, in realtà, è semplice opportunismo, utile a riempire poltrone e vendere biglietti.

Nel frattempo, si tace sulla repressione dei diritti in Russia, sulla guerra in Ucraina, sui crimini contro le opposizioni, sulla sistematica cancellazione della libertà di stampa. Di fronte a questi sviluppi, il silenzio degli artisti diventa non solo un segno di codardia, ma un tradimento del loro ruolo storico: dare voce agli emarginati, difendere la libertà, sfidare il potere e le ingiustizie. In altre parti del mondo, ci sono artisti che rischiano la vita per un murales, una canzone, un verso di poesia. In Occidente, dove la parola è (ancora) libera, molti scelgono invece di autocensurarsi. Il risultato è un mondo artistico sempre più asettico, prigioniero della logica del consenso e della paura di perdere follower o contratti.

C'è bisogno di coraggio, ora più che mai. Di arte che sappia denunciare, che osi turbare, che rifiuti il compromesso facile, perché un artista che tace di fronte all’ingiustizia non è solo un artista silenzioso, ma è un artista complice.

sabato 12 luglio 2025

Odiatori del sistema tonale: un feticcio ideologico

Tra le derive più grottesche di questo grande bluff musicale contemporaneo, spicca l'odio viscerale per il sistema tonale. Un odio che, nel tempo, si è trasformato in un vero e proprio feticcio ideologico, quasi una religione laica con le sue scomuniche e le sue ortodossie.

Per decenni ci è stato ripetuto che la tonalità fosse un relitto borghese, un retaggio del passato da cancellare per far posto alla "vera" modernità. La musica tonale, ci dicevano, sarebbe incapace di dire qualcosa di nuovo, incapace di esprimere la complessità dell’uomo contemporaneo. Come se la complessità umana potesse esprimersi solo attraverso dissonanze sistematiche, cluster, rumori industriali e micro-intervalli.

Ma la verità è un’altra: la tonalità non è un semplice "sistema", un gabbione da cui liberarsi. È un linguaggio, un codice emotivo universale che ha accompagnato secoli di musica e continua a parlare al cuore delle persone. Bach, Beethoven, Mahler, ma anche il jazz, il rock, la canzone d’autore: tutti dialogano con la tonalità, la reinventano, la contaminano. L'odio per la tonalità spesso non nasce da un’esigenza artistica autentica, ma da un bisogno di differenziarsi, di sentirsi "più puri", "più evoluti", "più intellettuali" degli altri. È un'arma ideologica per marcare un confine tra "noi" (i veri innovatori) e "loro" (i passatisti, i nostalgici). È lo stesso meccanismo che anima certi settarismi politici o religiosi: non importa più creare qualcosa di significativo, importa soltanto ribadire la propria appartenenza al clan dei "salvati".

Il paradosso più comico e al contempo tristissimo, è che, alla fine, molti di questi odiatori della tonalità hanno semplicemente sostituito una gabbia con un’altra. Hanno gettato via le regole armoniche classiche per abbracciare dogmi ancora più rigidi: serialismi integrali, algoritmi compositivi, procedure aleatorie che, anziché liberare la creatività, la incatenano dentro un formalismo sterile.

E allora, dov’è la libertà? Dov’è la sincerità? Se la tonalità è solo uno dei possibili linguaggi, perché demonizzarla? Perché negare al compositore il diritto di usarla, di reinventarla, di mescolarla a nuovi colori? Il vero artista non dovrebbe farsi domande su cosa "si può" o "non si può" fare, ma su cosa sente la necessità di dire, su come restituire al pubblico un’esperienza viva.

Il dogma anti-tonale è ormai un tic accademico, una parola d’ordine per ottenere finanziamenti, per passare selezioni nei concorsi, per essere "programmabili" nei festival. Una scorciatoia per sentirsi dalla parte giusta della storia. Ma la storia (la storia vera, non quella scritta nei bollettini universitari) non ha mai premiato i sacerdoti dell’ortodossia. La storia premia chi riesce a parlare al cuore dell’uomo. E il cuore dell’uomo non riconosce confini, non distingue tra "tonale" e "atonale": riconosce solo ciò che è vero. In un’epoca dove tutti si riempiono la bocca di "pluralità dei linguaggi", la tonalità viene invece trattata come un colpevole da processare. È un gesto di incredibile ipocrisia. La vera pluralità, la vera apertura, significa ammettere che la tonalità può convivere con la dodecafonia, il minimalismo, l’elettroacustica, il noise. Significa ammettere che la tonalità, proprio perché è radicata nell’ascolto umano, può essere ancora oggi strumento di ricerca, di vertigine e di bellezza.

Chi davvero crede nella musica come arte viva dovrebbe smettere di erigere steccati. Dovrebbe smettere di combattere guerre ideologiche ormai ridicole. Dovrebbe, semplicemente, mettersi in ascolto.

lunedì 7 luglio 2025

Islam, cultura europea e il rischio per le future generazioni

L’Europa, culla di un umanesimo che ha alimentato per secoli arte, scienza e filosofia, si trova oggi di fronte a una sfida profonda e complessa: la convivenza con culture e religioni che presentano visioni del mondo molto diverse, tra cui l’Islam. Non si tratta di una questione puramente religiosa, bensì culturale e identitaria, che interroga le fondamenta stesse della civiltà europea. Il pensiero europeo, a partire dal Rinascimento, si è caratterizzato per la centralità dell’individuo, la libertà di espressione, il dubbio come strumento di conoscenza e la separazione tra potere religioso e politico. Questo spirito ha permesso la fioritura delle arti, delle lettere e delle scienze. Invece, in molte interpretazioni dell’Islam — soprattutto quelle più rigoriste — la vita individuale è fortemente regolata dal Corano e dalla Sunna, lasciando poco spazio al libero arbitrio e alla creatività artistica intesa come autonoma ricerca del senso.

La tensione tra queste due visioni emerge, ad esempio, nella rappresentazione artistica. La tradizione islamica, per motivi dottrinali, tende a vietare la raffigurazione figurativa, mentre l’arte europea ha celebrato per secoli il corpo umano, la natura e la libertà dell’immaginazione. Allo stesso modo, la letteratura europea si fonda su un incessante interrogarsi, sulla messa in discussione di dogmi, mentre nelle scuole coraniche più rigorose la conoscenza si riduce spesso a un’adesione totale e incondizionata al testo sacro.

Questa rigidità rischia di costituire un pericolo soprattutto per le future generazioni, nel caso in cui venissero educate esclusivamente secondo principi religiosi che scoraggiano il pensiero critico. Se la formazione dei giovani si limitasse «ai detti del profeta» e a ciò che prescrive il Corano, potremmo assistere a un progressivo disinteresse verso le conquiste dell’arte, della filosofia e della scienza. Il risultato sarebbe una società più chiusa, priva di curiosità e di spirito creativo, fondata su superstizione e ignoranza.

L’ignoranza, infatti, è il veleno più subdolo: anestetizza lo spirito, indebolisce il senso civico, rende le menti facili da controllare. Quando una società smette di porsi domande, di esplorare il mistero e di guardare oltre la superficie delle cose, diventa vulnerabile alle derive autoritarie e fanatiche. In un mondo dove la tecnologia avanza in modo vertiginoso e dove il pensiero scientifico dovrebbe guidarci verso nuove conquiste, il rischio di ritirarsi in posizioni dogmatiche è particolarmente pericoloso.

A ciò si aggiunge la colpevole cecità del mondo contemporaneo, troppo abituato ai propri agi per accorgersi dei cambiamenti profondi che lo stanno attraversando. Il benessere materiale, seppure importante, può diventare un anestetico che spegne il senso critico e la capacità di resistenza culturale. L’Europa, che un tempo era pronta a difendere la libertà di pensiero a costo della vita, oggi appare spesso sorda e indifferente di fronte alla graduale erosione dei propri valori fondanti. Il futuro che ci attende, in questo scenario, è incerto e pericoloso. Senza una difesa decisa dei principi di libertà, razionalità e laicità, rischiamo di consegnare ai nostri figli un continente impoverito culturalmente e spiritualmente, dominato dall’ignoranza e dalla superstizione, incapace di produrre arte, incapace di pensare, incapace di sognare.

La sfida, dunque, non è soltanto proteggere la cultura europea dall’esterno, ma risvegliare in noi stessi la volontà di difenderla, di coltivarla, di trasmetterla. Significa tornare a educare le nuove generazioni non alla cieca obbedienza, ma al dubbio, alla bellezza, alla ricerca della verità. Solo così potremo garantire un futuro in cui la cultura, la libertà e l’arte non siano solo retaggi di un passato glorioso, ma linfa viva di una civiltà che non rinuncia a essere se stessa.

Karl Popper, filosofo austriaco, considerato uno dei più influenti del suo tempo

Il filosofo Karl Popper, nel suo "La società aperta e i suoi nemici", avvertiva che la tolleranza illimitata può portare alla scomparsa della tolleranza stessa: se una società aperta permette a dottrine intolleranti di prosperare senza critica, finisce per autodistruggersi. Questo principio, noto come "il paradosso della tolleranza", dovrebbe guidare le politiche migratorie e di integrazione europee. Il futuro che ci attende, in questo contesto, è incerto e potenzialmente pericoloso. La sfida più grande è risvegliare la coscienza critica collettiva e riaffermare con coraggio i valori che ci hanno resi liberi: la ricerca della verità, la bellezza, il rispetto della persona come fine e non come mezzo. Solo così l’Europa potrà continuare a essere un faro di civiltà, capace di guardare al futuro senza rinunciare alla propria anima.



venerdì 4 luglio 2025

Diversità di genere

Negli ultimi anni, le stagioni concertistiche e, più in generale, la programmazione artistica di molte istituzioni culturali sembrano sempre più orientate a privilegiare la cosiddetta "diversità di genere" come criterio principale per la selezione degli interpreti. Il principio, in sé nobile e animato da buone intenzioni, ovvero correggere storiche disparità e dare spazio a voci finora marginalizzate, rischia però di degenerare in un nuovo dogma: quello del "politically correct" a tutti i costi. 

La musica, come ogni arte, vive e si alimenta di qualità, di eccellenza, di talento autentico. La scelta degli interpreti dovrebbe basarsi esclusivamente su questi parametri: la capacità di saper leggere in profondità una partitura, di restituire al pubblico un'interpretazione personale ma rigorosa, di trasmettere emozioni sincere. Quando invece si antepone la "quota rosa" o la "quota diversity" al merito, si tradisce l’essenza stessa dell’arte. La musica diventa così uno strumento di propaganda ideologica e perde la sua funzione primaria: quella di parlare direttamente al cuore e all'intelletto, senza mediazioni.

Il paradosso è che questa forzatura, lungi dal promuovere un’autentica uguaglianza, rischia di svilire proprio coloro che si vorrebbero valorizzare. Una direttrice d'orchestra o una compositrice di talento non ha bisogno di "quote" per essere riconosciuta: ha bisogno che il suo lavoro venga giudicato con lo stesso rigore e lo stesso entusiasmo riservato a qualunque collega uomo. Imporle un posto in cartellone solo per motivi di rappresentanza equivale a sminuire il suo percorso e a insinuare un dubbio sulla legittimità del suo successo.

In definitiva, l'arte dovrebbe essere uno dei pochi ambiti dove l'individualità, la libertà di espressione e la qualità contano più di qualsiasi etichetta o appartenenza. Se davvero si vuole una società più giusta e inclusiva, bisogna partire dall’educazione e dal sostegno reale alla crescita dei talenti, non dalla creazione artificiosa di vetrine. La musica non ha bisogno di essere "politically correct": ha bisogno di essere vera, profonda e libera.

La paura di esprimersi e il coraggio di essere sé stessi

Quando siamo giovani, ma a dire il vero anche da adulti, ci capita spesso di avere paura di dire davvero ciò che pensiamo. Teniamo dentro le nostre idee, i nostri sogni, per paura di sembrare “strani”, di essere giudicati male o di perdere qualche occasione importante. Ma a forza di mettere maschere e filtri, finiamo per dimenticare chi siamo davvero. Ci si convince che il silenzio, la prudenza, il conformismo siano strumenti necessari per garantirsi un posto nel mondo. Eppure, questo atteggiamento nasconde una trappola sottile e pericolosa: la rinuncia progressiva alla propria verità interiore.

La paura del giudizio altrui è una prigione invisibile. Ci impedisce di esprimere idee, emozioni, desideri. Si finisce col vivere in funzione di uno sguardo esterno, dimenticando che ogni individuo è chiamato a costruire la propria strada, non a percorrere sentieri tracciati da altri. La dignità dell’essere umano risiede proprio nella capacità di affermare se stesso, anche a costo di pagare un prezzo in termini di consensi o di opportunità perdute.

Chi sacrifica la propria autenticità per compiacere gli altri rinuncia a quella forza interiore che sostiene lo spirito nei momenti più difficili. La libertà di essere se stessi è la radice di una vita piena e coraggiosa. Solo chi è fedele alla propria essenza può procedere a testa alta, senza farsi schiacciare dal peso di un futuro che ancora non esiste e senza restare imprigionato nei rimpianti di un passato ormai concluso. La vera conquista non è il successo esteriore, ma la pace con se stessi: la certezza di aver vissuto secondo la propria voce, senza tradimenti né maschere. Questo è il fondamento di uno spirito forte e luminoso, capace di attraversare la vita con dignità, gratitudine e coraggio.

Nietzsche diceva che la cosa più importante nella vita è diventare se stessi. Non “essere” come gli altri vogliono, non adattarsi al copione, ma trovare la propria voce e avere il coraggio di usarla. Chi passa la vita a compiacere tutti, alla fine si ritrova vuoto. Con il concetto di "diventare ciò che si è", ci sprona a non piegarci agli schemi imposti dall’esterno. L'individuo autentico non cerca approvazioni facili; egli accetta la solitudine e l’incomprensione come prove necessarie per affermare la propria unicità. Anche  Seneca ci ricorda che non è la vita a essere troppo breve: siamo noi che la sprechiamo. Stiamo sempre a preoccuparci di un futuro che non esiste ancora, o a piangerci addosso per un passato che non possiamo cambiare. E intanto perdiamo il presente, che è l’unica cosa vera che abbiamo. Marco Aurelio, filosofo guerriero, ribadiva che è importante concentrarci su quello che possiamo controllare: il nostro sguardo sulle cose, le nostre azioni quotidiane, la nostra coerenza. Vivere secondo i nostri valori, anche se è scomodo, è la vera forza. 

Quando smettiamo di vivere in funzione degli altri e iniziamo a essere sinceri con noi stessi, succede qualcosa di potente. Iniziamo a sentirci più leggeri, più vivi. Non abbiamo più paura di sbagliare, perché non stiamo più recitando una parte. E anche se perdiamo qualche approvazione, guadagniamo una libertà che vale infinitamente di più. Alla fine, quello che conta davvero non è piacere a tutti, ma riuscire a guardarci allo specchio e sentirci in pace. Come direbbe Nietzsche, impariamo a “danzare” sopra le paure. E come ci ricordano Seneca e Marco Aurelio, torniamo a vivere davvero, momento per momento, senza farci schiacciare da aspettative e fantasmi. La vita è una sola e sprecarla a nascondersi è davvero il modo peggiore di viverla.


"La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri."
Marco Aurelio

Non dobbiamo mai farci schiavi dell’opinione comune, perché il vero bene non risiede nell’approvazione esterna, ma nell’armonia dell’anima con se stessa. Vivere secondo la propria ragione, secondo natura, è il primo fondamento della serenità.

In ogni epoca, l’essere umano ha cercato conferma di sé nello sguardo altrui. L’approvazione sociale, il plauso pubblico, il riconoscimento esterno sono diventati criteri illusori attraverso cui molti misurano il proprio valore. Ma questa tensione verso il consenso nasconde una trappola sottile e pericolosa: la schiavitù dell’anima. Quando affidiamo la nostra serenità alle opinioni degli altri, ci esponiamo a un continuo altalenare emotivo, oscillando tra euforia e abbattimento a seconda dei giudizi ricevuti. Così facendo, smarriamo la nostra essenza più autentica e diventiamo ostaggi di aspettative che non ci appartengono. Il vero bene, invece, risiede nella capacità di vivere in accordo con la propria ragione, quella parte più nobile e luminosa di noi che ci guida verso ciò che è giusto e conforme alla nostra natura. Vivere secondo ragione significa scegliere con consapevolezza, accettare la responsabilità delle proprie azioni e coltivare un’intima coerenza, che non dipende da fattori esterni.

Questa armonia interiore non è frutto di improvvisazione né di semplice istinto: è una conquista quotidiana, fatta di ascolto, di riflessione e di silenzio. Solo quando riusciamo a dialogare con noi stessi, senza bisogno di specchi deformanti, possiamo assaporare quella libertà che è la radice della serenità. Essere liberi dal giudizio esterno non significa ignorare il mondo o rinunciare ai legami umani, ma significa non farsi definire da essi. La vita secondo natura non è isolamento, bensì una partecipazione piena, consapevole e armoniosa, dove ogni gesto nasce da un’intima necessità e non dall’attesa di approvazione.


giovedì 3 luglio 2025

Musica e percezione visiva

Il pubblico contemporaneo, soprattutto quello delle grandi città, appare sempre più prigioniero di una percezione estetica distorta, plasmata da un bombardamento incessante di immagini, slogan, narrazioni precostituite. In questo contesto, la Musica, che dovrebbe essere un’esperienza puramente uditiva, un incontro intimo tra il suono e l’anima, si trasforma in un prodotto da confezionare, vendere e consumare.

Chi frequenta i teatri e le sale da concerto non ascolta più con l’orecchio interiore, ma con lo sguardo: cerca conferme visive, personalità carismatiche, gesti amplificati, abiti scenici, luci e pose. L’udito — il senso più antico, quello che percepisce il mistero, il respiro dell’universo, il non detto — viene relegato a funzione secondaria.

Il pubblico non si accorge di essere diventato un ingranaggio di un sistema che decide in anticipo chi debba essere celebrato, chi osannato, chi dimenticato. L’artista di oggi, per emergere, è spesso costretto a costruire un’immagine che prevalga sul suono, che conquisti la vista, anche a costo di snaturare la propria autenticità musicale. E quando anche la musica stessa viene ridotta a "contorno" di una performance visiva, la sala da concerto rischia di diventare un’arena di esibizioni circensi.

Il risultato è un impoverimento drammatico: la Musica non è più un nutrimento spirituale, un viaggio interiore, un’occasione per confrontarsi con il mistero, il silenzio, la bellezza pura. Si riduce a pretesto per confermare opinioni già pronte, a consolazione superficiale per un pubblico che, in fondo, non cerca più di essere trasformato, ma soltanto rassicurato.

Solo quando riusciremo a rieducare l’ascolto — a restituire centralità al silenzio, all’attesa, alla vulnerabilità dell’udito — potremo sperare di ritrovare la Musica nella sua verità. Una Musica che non ci chiede di guardarla, ma di accoglierla, di abbandonarci al suo flusso, di lasciare che scavi dentro di noi, fino a toccare quell’intima corda dove si nasconde, forse, il senso più autentico della nostra esistenza.

mercoledì 2 luglio 2025

Avviso agli artisti (e a chiunque coltivi la propria interiorità)


Circondarsi soltanto di persone che risuonano con le nostre qualità più autentiche non è un gesto di arroganza, ma un atto di tutela spirituale. Nell’arte, come nella vita, ogni incontro lascia un’impronta. Una conversazione, uno sguardo, una stretta di mano possono agire come semi, capaci di germogliare in noi conseguenze impreviste.
Chi si avvicina a te per calcolo, per convenienza o per tornaconto, porterà inevitabilmente con sé una vibrazione dissonante, che a lungo andare può avvelenare anche l’ispirazione più pura. La tentazione di frequentare chi "potrebbe esserci utile" è forte, soprattutto in un ambiente competitivo come quello artistico. Ma ogni compromesso, anche solo sociale, è un piccolo tradimento al nostro nucleo più vero.
Ricorda che anche un semplice gesto, una stretta di mano o un sorriso complice è una forma di contratto invisibile, un consenso silenzioso. Se non è sincero, rischia di diventare un vincolo che ci lega a energie contrarie al nostro cammino.
Per questo è meglio scegliere con fermezza chi accogliere nel proprio orizzonte umano: chi ci ispira fiducia al primo sguardo, chi ci fa vibrare di una gioia quieta e profonda. Non farti sedurre dal miraggio dell'opportunità immediata; coltiva invece relazioni che nutrono la tua anima e proteggono la tua integrità.
Solo così l'artista (e l'uomo) potrà camminare leggero, fedele a se stesso e al mistero che custodisce.



venerdì 27 giugno 2025

Uomo e meccanica quantistica

Il principio di indeterminazione di Heisenberg, che afferma come non sia possibile conoscere simultaneamente con precisione assoluta la posizione e la velocità di una particella, può offrire una suggestiva metafora se lo applichiamo all’osservazione delle persone. Ogni volta che osserviamo profondamente un essere umano cercando di capirlo, analizzarlo, e definirlo, inevitabilmente lo influenziamo. Come nel principio di indeterminazione, l'atto stesso di osservare modifica ciò che si osserva. Più cerchiamo di cogliere "dove" una persona si trova interiormente (le sue emozioni, le sue convinzioni), meno possiamo sapere "dove va" (il suo divenire, la sua libertà di cambiamento). E viceversa: più ci concentriamo su ciò che diventerà, sulle sue potenzialità, meno possiamo afferrare ciò che è ora. Per questo motivo, il desiderio di "cambiare" qualcuno porta sempre con sé un’ambiguità: non cambiamo mai una persona neutra, ma una che abbiamo già alterato semplicemente cercando di comprenderla. La vera trasformazione, allora, non nasce dall’osservazione analitica, ma dalla relazione viva, in cui l'osservatore e l'osservato si trasformano insieme.

Sul limite dell’osservare, sorge spontanea una riflessione sull’indeterminazione dell’essere umano.

Il principio di Heisenberg sancisce che non possiamo conoscere simultaneamente con precisione assoluta la posizione e la quantità di moto di una particella. L’atto stesso dell’osservazione ne altera lo stato. Ma cosa accade quando rivolgiamo questo principio non alla materia, bensì all’uomo? L’essere umano, nella sua interiorità, non è meno sfuggente di una particella subatomica. Chi si illude di poterlo comprendere del tutto, come se fosse una macchina trasparente riducibile a schemi, comportamenti o diagnosi, commette un errore di categoria. Ogni tentativo di osservarlo nel profondo ne perturba la natura. L’interiorità, infatti, non è un oggetto da sezionare, ma un campo di possibilità, un processo in atto. La nostra attenzione, il nostro giudizio e persino il nostro amore agiscono su chi osserviamo, lo modellano e lo spostano. Questo ci pone davanti a un paradosso: non possiamo conoscere una persona e al contempo non alterarla. Più tentiamo di coglierla in un istante, fermarla, definirla, dire “ecco, è così”, più perdiamo la sua direzione, il suo divenire. Come per la particella di Heisenberg, fissare il “dove” cancella il “dove va” e se ci fissiamo sul divenire, perdiamo l’attimo del suo essere.

Werner Karl Heisenberg nel 1927, anno in cui pubblicò il suo articolo sul principio di indeterminazione

Questo principio ci ammonisce anche sul tema del cambiamento: possiamo davvero “cambiare” qualcuno? O stiamo semplicemente agendo su un riflesso di ciò che ci appare, dimenticando che ciò che vediamo è già, in parte, opera nostra? Ogni tentativo di mutare l’altro presuppone un’immagine che ne abbiamo, e questa immagine è già una manipolazione.

Il rispetto della libertà altrui, dunque, non consiste nel non intervenire, ma nel riconoscere il nostro limite: non possiamo conoscere né cambiare senza essere anche noi coinvolti nel processo. Ogni relazione autentica è una co-creazione, dove osservatore e osservato si trasformano insieme, in un gioco perpetuo di riflessi, risonanze e infinite possibilità. In definitiva, il principio di indeterminazione, trasposto alla sfera dell’umano, ci insegna l’umiltà. Non possiamo afferrare l’altro come un oggetto. Possiamo solo danzare con la sua indeterminazione, lasciandoci cambiare mentre cerchiamo di comprendere.



L’arte di educare

L’arte di educare nell’ambito musicale non consiste soltanto nel trasmettere competenze tecniche, stilistiche o storiche, ma nel generare autonomia. Questo è, forse, il compito più arduo per un educatore autentico: condurre l’allievo verso una libertà interiore ed espressiva che non sia mai mera imitazione, né prigionia del gusto altrui. Raggiungere questo traguardo significa anche avere il coraggio, a un certo punto, di sparire, lasciando che il discepolo cammini con le proprie gambe, magari sbagliando, ma costruendo un’identità autentica.

Tuttavia, tale processo non è mai neutro. Tra docente e discente si instaurano inevitabilmente dinamiche affettive, emotive, a volte persino inconsce, che possono diventare al contempo nutrimento e ostacolo. Il maestro deve vigilare perché l’ammirazione non si trasformi in sudditanza, e l’influenza in imitazione. Educare, etimologicamente, significa “trarre fuori”, non “plasmare a propria immagine”. In questo senso, l’arte dell’insegnamento è anche un’arte del distacco: saper lasciare andare l’altro, dopo avergli indicato la strada.

Eppure, la relazione non finisce con la lezione. Se vissuto con onestà e profondità, il legame educativo può trasformarsi in qualcosa che va oltre il rapporto professionale: un’amicizia umana e artistica, che resiste al tempo, alle distanze, ai cambiamenti. Questo tipo di rapporto è raro, prezioso, e si fonda non su un’appartenenza gerarchica, ma su una condivisione di valori, di visione artistica e spirituale.


In musica, tutto questo è ancora più intenso. La musica stessa è un luogo di risonanza interiore, dove ciò che è autentico vibra e ciò che è costruito cade. Per questo motivo, il feeling che si crea tra maestro e allievo spesso prescinde dall’età, dalla posizione, perfino dall’esperienza. Esiste una dimensione intangibile, quasi misteriosa, in cui due anime si riconoscono: è lì che nasce l’atto educativo più profondo. Il maestro, in fondo, è colui che risveglia ciò che nell’allievo è già presente, ma dormiente. Come uno scultore che, più che modellare, libera la forma intrappolata nella pietra.

Educare, allora, significa rendere l’altro libero, eppure mai solo. Lasciarlo andare, ma restare presente nella memoria profonda dei suoi gesti, delle sue scelte, delle sue note. È un atto d’amore disinteressato, che fiorisce davvero solo quando il maestro accetta di diventare superfluo.


martedì 24 giugno 2025

Il cellulare, la crisi e il senso del dovere: un campanello d’allarme per il futuro


Un episodio recente accaduto durante l’arruolamento di nuovi allievi carabinieri solleva interrogativi inquietanti sul presente e, ancor più, sul futuro della nostra società. Un numero significativo di giovani, dopo appena una settimana di corso, è stato allontanato: la causa non era l’inadeguatezza fisica né intellettuale, ma una crisi psicologica generata dalla privazione del telefono cellulare. Una semplice misura disciplinare – del tutto prevedibile in un contesto militare – si è rivelata insostenibile per molti.

Questo fatto non è solo curioso o imbarazzante. È sintomatico di una fragilità profonda, culturale e identitaria. In un’epoca dove l’immediatezza della connessione sembra sostituire la profondità dell’interiorità, l’assenza dello smartphone diventa una mutilazione dell’Io, quasi una perdita di senso. Ma se bastano pochi giorni senza schermo per generare ansia, disorientamento, rifiuto del contesto... allora dobbiamo chiederci: quali sono le risorse interiori dei nostri giovani? Quali valori reggono il loro rapporto con la realtà?

Nel delicatissimo ambito della tutela dello Stato, dell’ordine pubblico e del benessere collettivo, è impensabile affidarsi a figure incapaci di tollerare il silenzio, la solitudine, la disciplina. L’addestramento militare non è solo fisico: è innanzitutto etico. Richiede forza d’animo, senso del dovere, capacità di rinuncia. Se queste virtù vengono sopraffatte dalla dipendenza da un oggetto, il problema non è solo dei carabinieri: è della società intera.

Forse è tempo di ripensare non solo la formazione dei futuri servitori dello Stato, ma anche la formazione dell’uomo, sin dall’infanzia. Recuperare il valore della presenza, dell’autonomia interiore, della pazienza. Altrimenti rischiamo di costruire un mondo sempre più connesso, ma sempre meno capace di reggere la realtà.


lunedì 23 giugno 2025

Europa, oggi.



L’Europa di oggi è una società esausta, adagiata nella sicurezza apparente del benessere materiale e dei diritti acquisiti. Ha trasformato i comfort in anestetici morali e la pace in un alibi per l’inazione. Dopo decenni di crescita e progresso, è diventata passiva, timorosa, incapace di difendere ciò che un tempo aveva conquistato a caro prezzo: la libertà autentica dell’individuo.

La libertà vera, quella che si assume il rischio della responsabilità, del dissenso, dell’identità personale e collettiva, è stata progressivamente sostituita da una forma di democrazia amministrata, astratta, ridotta a procedura, incapace di generare virtù civiche. La democrazia, svuotata della sua anima, è diventata fine a sé stessa: non più mezzo per la libertà, ma idolo autoreferenziale.

Questa Europa confonde la pace con la viltà, la neutralità con la giustizia, l’equilibrio con la rinuncia. Si proclama “comunità di valori” ma non è più disposta a combattere per quei valori. È diventata pavida: preferisce evitare lo scontro, qualsiasi esso sia, pur di conservare la propria fragile e confortevole stabilità. E nel farlo si è resa imbelle, cioè priva non solo di mezzi, ma soprattutto di volontà di difesa.

Di fronte alla minaccia crescente di nuovi totalitarismi – che non si presentano più in uniforme, ma si insinuano nei mercati, nei media, nei codici culturali – l’Europa resta paralizzata, prigioniera di un egoismo postmoderno: teme la guerra non per ciò che rappresenta in sé, ma perché disturberebbe la sua quotidianità narcotizzata. Il rischio non è la guerra: il rischio è che, per evitarla a ogni costo, si finisca per perdere ciò che essa talvolta difende – la libertà, la dignità, la verità.

Abbiamo paura non perché siamo saggi, ma perché siamo stanchi, e la stanchezza ha ucciso il coraggio. Abbiamo smarrito l’ethos tragico della storia: non siamo più capaci di accettare che certe conquiste richiedano sacrificio, dolore, lotta. Ci accontentiamo di “funzionare”, di consumare, di commentare indignati sui social, ma non siamo più disposti ad agire. L’Europa è vecchia, non solo demograficamente, ma spiritualmente.

Eppure, la storia non perdona l’inerzia. Nessuna civiltà può sopravvivere se non è disposta a difendere sé stessa, a rinnovare le proprie radici, a mettere in discussione i propri automatismi. Se l’Europa non ritroverà una volontà politica e culturale forte, capace di ripensare i fondamenti della libertà in chiave attiva e coraggiosa, finirà per essere non invasa, ma semplicemente sostituita, non da un nemico esterno, ma da se stessa. O meglio: da quel vuoto di sé che ha lasciato crescere dentro, senza più alcun desiderio di riempirlo.


La crisi della musica colta contemporanea: una frattura tra intelletto e ascolto

Nel corso del Novecento, la musica cosiddetta "colta" ha conosciuto una deriva che ne ha compromesso il rapporto con il pubblico e con la sua stessa funzione espressiva. Molti compositori, forti di una conoscenza profonda della sintassi musicale, si sono progressivamente allontanati dall'ascolto sensibile per rifugiarsi in un linguaggio autoreferenziale, fondato su costruzioni intellettuali complesse, spesso indecifrabili per chi non possieda gli strumenti teorici adeguati. Questo processo ha avuto come conseguenza una crisi della comunicazione musicale e una frattura sempre più profonda tra la musica d'arte e i suoi potenziali fruitori.

La musica, per millenni, ha parlato direttamente all'anima degli uomini, traducendo emozioni, tensioni, aspirazioni in suono. È sempre stata, anche nei suoi momenti di maggiore raffinatezza formale, un'arte della percezione e dell'esperienza sensibile. Ma a partire dal secondo dopoguerra, si è progressivamente affermata una concezione della composizione come esercizio astratto, spesso giustificato unicamente da logiche interne al linguaggio musicale stesso. L'opera veniva pensata per essere analizzata più che ascoltata, come se il suo valore dipendesse dalla coerenza strutturale piuttosto che dalla sua efficacia comunicativa.

Questa posizione ha generato una sorta di scisma culturale. Il pubblico, confuso e intimorito, ha iniziato a sentirsi inadeguato, incapace di "capire". L'atto dell'ascolto, che dovrebbe essere spontaneo e naturale, è stato sostituito da un esercizio critico e intellettuale riservato a pochi. La musica colta si è rinchiusa in un recinto elitario, perdendo la sua funzione originaria di arte condivisa. La reazione, inevitabile, è stata una progressiva emarginazione della musica contemporanea dai circuiti della fruizione popolare: mentre le sale da concerto continuavano a proporre i capolavori del passato, le nuove creazioni venivano percepite come ostiche, fredde, prive di emozione.

Non si tratta, sia chiaro, di condannare in blocco l'innovazione o la complessità. La musica non deve rinunciare alla profondità, alla ricerca, al pensiero. Ma deve ritrovare un equilibrio tra intelligenza e sensibilità, tra costruzione e partecipazione. L'errore è stato quello di sostituire il gusto con il concetto, l'ascolto con l'analisi, dimenticando che la musica vive nel tempo dell'esperienza, non solo nello spazio della partitura.


Riconoscere questa crisi significa aprire una riflessione sincera sul ruolo della musica oggi. Serve un nuovo umanesimo musicale, capace di ricomporre la frattura tra compositore e pubblico, tra tecnica e emozione, tra sapere e bellezza. Una musica colta che torni a parlare al cuore dell'uomo, senza per questo rinunciare alla propria complessità, è non solo possibile, ma necessaria. Solo così si potrà restituire alla musica la sua piena dignità di arte viva e vitale, capace di incidere nel presente e di orientare il futuro.

Questo rinnovamento non passa per una semplificazione superficiale né per un facile ritorno al passato, ma per una consapevole riscoperta del potere comunicativo della musica. Occorre ripensare la formazione del compositore, rieducare l’ascoltatore, ristabilire un dialogo tra innovazione e tradizione. La musica d’arte non deve parlare solo a chi la scrive, ma anche — e soprattutto — a chi l’ascolta. Solo una musica che si lasci ascoltare senza per questo rinunciare alla profondità potrà ritrovare il suo posto nella società.

In definitiva, il futuro della musica colta non può essere costruito sull’autoreferenzialità, ma sulla capacità di toccare, con autenticità, il sentire umano. Ritrovare questa via significa restituire alla musica il suo statuto più alto: quello di linguaggio universale dell’emozione e del pensiero.