Quando si vince sempre, la vittoria smette di essere un esito e rischia di diventare un’identità. È una corazza sottile che brilla, ma non regge agli urti. Così, alla prima sconfitta, non crolla solo un risultato, ma trema l’idea di sé. Chi si crede imbattibile, spesso scambia il limite con l’incapacità, confondendo l’errore con il proprio valore. Molti dimenticano che la sconfitta, però, è un linguaggio. Ci dice dove finiamo noi e dove cominciano le cose che non controlliamo. È lo specchio che restituisce proporzioni: ridimensiona l’ego, illumina le crepe della nostra anima e riapre lo spazio della curiosità. Senza sconfitte non si impara la differenza tra l'identità di risultato (valgo se vinco) e l'identità di percorso (crescendo, valgo comunque). La prima è fragile perché dipende dall’applauso; la seconda è stabile perché si nutre di pratica, continua attenzione e responsabilità.
Accettare la sconfitta non significa desiderarla, ma riconoscerla come parte del mestiere di vivere. È un invito a riorganizzare le priorità: spostare lo sguardo dal trionfo all’artigianato quotidiano, dal mito dell’impossibile all’umiltà del possibile. Perdere senza perdersi: questo è il vero esercizio. Tornare al lavoro, separare il fatto dall’autogiudizio, domandarsi cosa c’è da capire e chi possiamo diventare proprio grazie a questa crepa. In fondo, il contrario della sconfitta non è la vittoria, ma è l’apprendimento. E chi trasforma la prima caduta in nutrimento dell’anima smette di morire spiritualmente: comincia a nascere di nuovo.
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