Cerca nel blog

mercoledì 12 novembre 2025

Arte, cultura e socialdemocrazia

La socialdemocrazia, con le sue promesse di uguaglianza e tutela, ha senza dubbio contribuito a rendere le società europee più giuste e vivibili. Tuttavia, questa stessa logica di protezione universale ha prodotto un effetto collaterale profondo: l’abitudine alla garanzia, la convinzione che tutto ciò che riguarda il vivere civile, inclusa la cultura, debba essere fornito in qualche misura dallo Stato. Ci siamo così abituati a un sistema che distribuisce cultura come servizio pubblico, quasi come se fosse un diritto consumabile, più che una conquista individuale o collettiva.
L’educazione, intesa come trasmissione obbligatoria di nozioni e valori, è divenuta il modello dominante, ma la cultura autentica non è mai imposizione, bensì tensione, desiderio e curiosità. È una conquista che implica molta fatica, ricerca impegnata e il rischio di fallire. Quando viene fornita “a domicilio”, perde parte della sua forza formativa, perché non richiede partecipazione attiva. Una società che riceve cultura come un servizio, senza più conquistarla, smette gradualmente di desiderarla. E senza desiderio non c’è creazione, non c’è qualità, non c’è vera evoluzione.

Mai come oggi, il mondo della musica colta rappresenta bene questa dinamica. Le orchestre, i teatri e le istituzioni liriche sopravvivono spesso grazie a sovvenzioni statali, più che alla domanda reale del pubblico, il più delle volte pilotato. In quest'ottica, sono pure soggette ad imposizioni dettate dalla becera politica, anziché dalla competenza dei settori. Il caso del Teatro La Fenice e della nominata Beatrice Venezi è l'ultimo lampante esempio di corruzione dei valori artistici.
Questo non significa negare il valore dell’arte sovvenzionata, ma riconoscere che il sostegno statale può trasformarsi in un anestetico del merito: garantisce la sopravvivenza, ma non ne assicura la vitalità. Il pubblico, dal canto suo, non percepisce più la cultura come bene da scegliere e sostenere, ma come servizio dovuto, come “quota” che lo Stato deve assicurare ai suoi cittadini. In questo modo, la musica (linguaggio universale e spirituale) rischia di diventare una formalità amministrativa.

La cultura, per tornare viva, deve tornare a essere desiderata e il desiderio nasce solo quando qualcosa ci appare prezioso, difficile e non scontato. Spendere il proprio denaro per la cultura, per un concerto, per un libro raro o un quadro, non è un atto elitario, ma è un atto di libertà, perché significa riconoscere che il valore non è solo nel prezzo ma nel significato assegnato a ciò che acquistiamo. In fondo, ogni conquista culturale autentica è un atto economico nel senso più profondo: un investimento del sé in qualcosa di più grande, un modo per dire "questa cosa la voglio, la scelgo e mi rappresenta".
Non si tratta di abolire il sostegno pubblico alla cultura, ma di ripensarne la logica. Lo Stato dovrebbe garantire le condizioni per accedere e crescere e non sostituirsi al desiderio.
Solo quando la cultura tornerà a essere vissuta come una conquista e non come uno dei tanti servizi potrà riacquistare il suo ruolo autentico. Ovvero, tornare a nutrire l’anima di una comunità e non semplicemente intrattenerla.
In questo senso, “comprare la musica” non significa mercificarla, ma riconoscerla come bene prezioso, come frutto di una scelta consapevole.

Nessun commento:

Posta un commento