La storia dell’istruzione artistica e della cultura nei paesi europei è strettamente intrecciata con l’intervento della cosa pubblica. Per ragioni storiche, politiche e ideologiche, lo Stato si è spesso arrogato il diritto, o il dovere, di governare questi ambiti, ritenendoli strumenti di coesione sociale, di formazione civica e, non di rado, di indirizzo ideologico. Tale “mano longa” della sfera pubblica ha agito con la convinzione di dover orientare le coscienze più che favorire la libertà creativa e intellettuale. Non è un caso che, nel corso di due secoli, istruzione e cultura siano diventate territori rigidamente controllati, più che ambiti di libera espressione e sperimentazione.
Se questa presa non verrà allentata, è difficile immaginare un futuro in cui pensiero e azione possano essere davvero liberi. L’arte, per sua natura, vive e prospera solo in un ecosistema in cui pluralità, dissenso e individualità non vengono soffocati. Quando invece l’istruzione artistica è soggetta a logiche ideologiche o a meccanismi burocratici lenti e autoreferenziali, il rischio è che essa diventi uno strumento di conservazione e non di evoluzione. Si perpetua così un sistema in cui l’accesso alle risorse e alle opportunità è filtrato da criteri politici o sociologici e non da merito, talento o capacità innovativa.
L’ideologia socialista, che trae linfa originaria dalla grande stagione della Rivoluzione francese, nacque come progetto di emancipazione collettiva e di giustizia sociale. Tuttavia, nel tempo, le sue applicazioni concrete hanno spesso rivelato limiti strutturali. L’idea di una distribuzione pianificata delle risorse, compresi i settori culturali, si è tradotta in eccessiva centralizzazione, in rigidità, e paradossalmente in una riduzione degli spazi di libertà individuale. Oggi, gran parte delle economie occidentali ha progressivamente abbandonato i modelli socialisti puri, riconoscendo l’impraticabilità di un sistema che pretende di controllare tutto dall’alto.
È emblematico che persino la Repubblica Popolare Cinese, Paese nato da una rivoluzione marxista, abbia riconosciuto i limiti dell’ideologia socialista ortodossa. Pur mantenendo un rigido controllo politico, ha introdotto elementi di mercato per sostenere la crescita economica e tecnologica, di fatto ammettendo seppure implicitamente che la sola pianificazione statale non è sufficiente a garantire dinamismo e sviluppo.
Il liberismo, con tutte le sue ombre e contraddizioni, ha almeno il pregio di legare responsabilità e libertà: gli oneri e gli onori sono in qualche misura bilanciati. Un sistema più aperto permette alla cultura e all’arte di vivere di pluralità, concorrenza e sperimentazione, pur con la consapevolezza dei rischi che ciò comporta (disuguaglianze, speculazioni, mercificazione). Ma questi rischi possono essere corretti con regole intelligenti, non con un controllo totalizzante.
In definitiva, il problema non è l’esistenza della mano pubblica, bensì la sua invadenza e la sua pretesa di determinare dall’alto il senso e il valore della cultura. La libertà del pensiero e dell’azione nasce dal confronto aperto, non dalla pianificazione ideologica. Se si vuole che la cultura torni a essere motore di libertà e non strumento di potere, occorre ridurre la cappa di controllo pubblico e restituire all’individuo e alla società civile il diritto e il dovere di costruire autonomamente il proprio orizzonte culturale.
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