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venerdì 27 giugno 2025

Uomo e meccanica quantistica

Il principio di indeterminazione di Heisenberg, che afferma come non sia possibile conoscere simultaneamente con precisione assoluta la posizione e la velocità di una particella, può offrire una suggestiva metafora se lo applichiamo all’osservazione delle persone. Ogni volta che osserviamo profondamente un essere umano cercando di capirlo, analizzarlo, e definirlo, inevitabilmente lo influenziamo. Come nel principio di indeterminazione, l'atto stesso di osservare modifica ciò che si osserva. Più cerchiamo di cogliere "dove" una persona si trova interiormente (le sue emozioni, le sue convinzioni), meno possiamo sapere "dove va" (il suo divenire, la sua libertà di cambiamento). E viceversa: più ci concentriamo su ciò che diventerà, sulle sue potenzialità, meno possiamo afferrare ciò che è ora. Per questo motivo, il desiderio di "cambiare" qualcuno porta sempre con sé un’ambiguità: non cambiamo mai una persona neutra, ma una che abbiamo già alterato semplicemente cercando di comprenderla. La vera trasformazione, allora, non nasce dall’osservazione analitica, ma dalla relazione viva, in cui l'osservatore e l'osservato si trasformano insieme.

Sul limite dell’osservare, sorge spontanea una riflessione sull’indeterminazione dell’essere umano.

Il principio di Heisenberg sancisce che non possiamo conoscere simultaneamente con precisione assoluta la posizione e la quantità di moto di una particella. L’atto stesso dell’osservazione ne altera lo stato. Ma cosa accade quando rivolgiamo questo principio non alla materia, bensì all’uomo? L’essere umano, nella sua interiorità, non è meno sfuggente di una particella subatomica. Chi si illude di poterlo comprendere del tutto, come se fosse una macchina trasparente riducibile a schemi, comportamenti o diagnosi, commette un errore di categoria. Ogni tentativo di osservarlo nel profondo ne perturba la natura. L’interiorità, infatti, non è un oggetto da sezionare, ma un campo di possibilità, un processo in atto. La nostra attenzione, il nostro giudizio e persino il nostro amore agiscono su chi osserviamo, lo modellano e lo spostano. Questo ci pone davanti a un paradosso: non possiamo conoscere una persona e al contempo non alterarla. Più tentiamo di coglierla in un istante, fermarla, definirla, dire “ecco, è così”, più perdiamo la sua direzione, il suo divenire. Come per la particella di Heisenberg, fissare il “dove” cancella il “dove va” e se ci fissiamo sul divenire, perdiamo l’attimo del suo essere.

Werner Karl Heisenberg nel 1927, anno in cui pubblicò il suo articolo sul principio di indeterminazione

Questo principio ci ammonisce anche sul tema del cambiamento: possiamo davvero “cambiare” qualcuno? O stiamo semplicemente agendo su un riflesso di ciò che ci appare, dimenticando che ciò che vediamo è già, in parte, opera nostra? Ogni tentativo di mutare l’altro presuppone un’immagine che ne abbiamo, e questa immagine è già una manipolazione.

Il rispetto della libertà altrui, dunque, non consiste nel non intervenire, ma nel riconoscere il nostro limite: non possiamo conoscere né cambiare senza essere anche noi coinvolti nel processo. Ogni relazione autentica è una co-creazione, dove osservatore e osservato si trasformano insieme, in un gioco perpetuo di riflessi, risonanze e infinite possibilità. In definitiva, il principio di indeterminazione, trasposto alla sfera dell’umano, ci insegna l’umiltà. Non possiamo afferrare l’altro come un oggetto. Possiamo solo danzare con la sua indeterminazione, lasciandoci cambiare mentre cerchiamo di comprendere.



L’arte di educare

L’arte di educare nell’ambito musicale non consiste soltanto nel trasmettere competenze tecniche, stilistiche o storiche, ma nel generare autonomia. Questo è, forse, il compito più arduo per un educatore autentico: condurre l’allievo verso una libertà interiore ed espressiva che non sia mai mera imitazione, né prigionia del gusto altrui. Raggiungere questo traguardo significa anche avere il coraggio, a un certo punto, di sparire, lasciando che il discepolo cammini con le proprie gambe, magari sbagliando, ma costruendo un’identità autentica.

Tuttavia, tale processo non è mai neutro. Tra docente e discente si instaurano inevitabilmente dinamiche affettive, emotive, a volte persino inconsce, che possono diventare al contempo nutrimento e ostacolo. Il maestro deve vigilare perché l’ammirazione non si trasformi in sudditanza, e l’influenza in imitazione. Educare, etimologicamente, significa “trarre fuori”, non “plasmare a propria immagine”. In questo senso, l’arte dell’insegnamento è anche un’arte del distacco: saper lasciare andare l’altro, dopo avergli indicato la strada.

Eppure, la relazione non finisce con la lezione. Se vissuto con onestà e profondità, il legame educativo può trasformarsi in qualcosa che va oltre il rapporto professionale: un’amicizia umana e artistica, che resiste al tempo, alle distanze, ai cambiamenti. Questo tipo di rapporto è raro, prezioso, e si fonda non su un’appartenenza gerarchica, ma su una condivisione di valori, di visione artistica e spirituale.


In musica, tutto questo è ancora più intenso. La musica stessa è un luogo di risonanza interiore, dove ciò che è autentico vibra e ciò che è costruito cade. Per questo motivo, il feeling che si crea tra maestro e allievo spesso prescinde dall’età, dalla posizione, perfino dall’esperienza. Esiste una dimensione intangibile, quasi misteriosa, in cui due anime si riconoscono: è lì che nasce l’atto educativo più profondo. Il maestro, in fondo, è colui che risveglia ciò che nell’allievo è già presente, ma dormiente. Come uno scultore che, più che modellare, libera la forma intrappolata nella pietra.

Educare, allora, significa rendere l’altro libero, eppure mai solo. Lasciarlo andare, ma restare presente nella memoria profonda dei suoi gesti, delle sue scelte, delle sue note. È un atto d’amore disinteressato, che fiorisce davvero solo quando il maestro accetta di diventare superfluo.


martedì 24 giugno 2025

Il cellulare, la crisi e il senso del dovere: un campanello d’allarme per il futuro


Un episodio recente accaduto durante l’arruolamento di nuovi allievi carabinieri solleva interrogativi inquietanti sul presente e, ancor più, sul futuro della nostra società. Un numero significativo di giovani, dopo appena una settimana di corso, è stato allontanato: la causa non era l’inadeguatezza fisica né intellettuale, ma una crisi psicologica generata dalla privazione del telefono cellulare. Una semplice misura disciplinare – del tutto prevedibile in un contesto militare – si è rivelata insostenibile per molti.

Questo fatto non è solo curioso o imbarazzante. È sintomatico di una fragilità profonda, culturale e identitaria. In un’epoca dove l’immediatezza della connessione sembra sostituire la profondità dell’interiorità, l’assenza dello smartphone diventa una mutilazione dell’Io, quasi una perdita di senso. Ma se bastano pochi giorni senza schermo per generare ansia, disorientamento, rifiuto del contesto... allora dobbiamo chiederci: quali sono le risorse interiori dei nostri giovani? Quali valori reggono il loro rapporto con la realtà?

Nel delicatissimo ambito della tutela dello Stato, dell’ordine pubblico e del benessere collettivo, è impensabile affidarsi a figure incapaci di tollerare il silenzio, la solitudine, la disciplina. L’addestramento militare non è solo fisico: è innanzitutto etico. Richiede forza d’animo, senso del dovere, capacità di rinuncia. Se queste virtù vengono sopraffatte dalla dipendenza da un oggetto, il problema non è solo dei carabinieri: è della società intera.

Forse è tempo di ripensare non solo la formazione dei futuri servitori dello Stato, ma anche la formazione dell’uomo, sin dall’infanzia. Recuperare il valore della presenza, dell’autonomia interiore, della pazienza. Altrimenti rischiamo di costruire un mondo sempre più connesso, ma sempre meno capace di reggere la realtà.


lunedì 23 giugno 2025

Europa, oggi.



L’Europa di oggi è una società esausta, adagiata nella sicurezza apparente del benessere materiale e dei diritti acquisiti. Ha trasformato i comfort in anestetici morali e la pace in un alibi per l’inazione. Dopo decenni di crescita e progresso, è diventata passiva, timorosa, incapace di difendere ciò che un tempo aveva conquistato a caro prezzo: la libertà autentica dell’individuo.

La libertà vera, quella che si assume il rischio della responsabilità, del dissenso, dell’identità personale e collettiva, è stata progressivamente sostituita da una forma di democrazia amministrata, astratta, ridotta a procedura, incapace di generare virtù civiche. La democrazia, svuotata della sua anima, è diventata fine a sé stessa: non più mezzo per la libertà, ma idolo autoreferenziale.

Questa Europa confonde la pace con la viltà, la neutralità con la giustizia, l’equilibrio con la rinuncia. Si proclama “comunità di valori” ma non è più disposta a combattere per quei valori. È diventata pavida: preferisce evitare lo scontro, qualsiasi esso sia, pur di conservare la propria fragile e confortevole stabilità. E nel farlo si è resa imbelle, cioè priva non solo di mezzi, ma soprattutto di volontà di difesa.

Di fronte alla minaccia crescente di nuovi totalitarismi – che non si presentano più in uniforme, ma si insinuano nei mercati, nei media, nei codici culturali – l’Europa resta paralizzata, prigioniera di un egoismo postmoderno: teme la guerra non per ciò che rappresenta in sé, ma perché disturberebbe la sua quotidianità narcotizzata. Il rischio non è la guerra: il rischio è che, per evitarla a ogni costo, si finisca per perdere ciò che essa talvolta difende – la libertà, la dignità, la verità.

Abbiamo paura non perché siamo saggi, ma perché siamo stanchi, e la stanchezza ha ucciso il coraggio. Abbiamo smarrito l’ethos tragico della storia: non siamo più capaci di accettare che certe conquiste richiedano sacrificio, dolore, lotta. Ci accontentiamo di “funzionare”, di consumare, di commentare indignati sui social, ma non siamo più disposti ad agire. L’Europa è vecchia, non solo demograficamente, ma spiritualmente.

Eppure, la storia non perdona l’inerzia. Nessuna civiltà può sopravvivere se non è disposta a difendere sé stessa, a rinnovare le proprie radici, a mettere in discussione i propri automatismi. Se l’Europa non ritroverà una volontà politica e culturale forte, capace di ripensare i fondamenti della libertà in chiave attiva e coraggiosa, finirà per essere non invasa, ma semplicemente sostituita, non da un nemico esterno, ma da se stessa. O meglio: da quel vuoto di sé che ha lasciato crescere dentro, senza più alcun desiderio di riempirlo.


La crisi della musica colta contemporanea: una frattura tra intelletto e ascolto

Nel corso del Novecento, la musica cosiddetta "colta" ha conosciuto una deriva che ne ha compromesso il rapporto con il pubblico e con la sua stessa funzione espressiva. Molti compositori, forti di una conoscenza profonda della sintassi musicale, si sono progressivamente allontanati dall'ascolto sensibile per rifugiarsi in un linguaggio autoreferenziale, fondato su costruzioni intellettuali complesse, spesso indecifrabili per chi non possieda gli strumenti teorici adeguati. Questo processo ha avuto come conseguenza una crisi della comunicazione musicale e una frattura sempre più profonda tra la musica d'arte e i suoi potenziali fruitori.

La musica, per millenni, ha parlato direttamente all'anima degli uomini, traducendo emozioni, tensioni, aspirazioni in suono. È sempre stata, anche nei suoi momenti di maggiore raffinatezza formale, un'arte della percezione e dell'esperienza sensibile. Ma a partire dal secondo dopoguerra, si è progressivamente affermata una concezione della composizione come esercizio astratto, spesso giustificato unicamente da logiche interne al linguaggio musicale stesso. L'opera veniva pensata per essere analizzata più che ascoltata, come se il suo valore dipendesse dalla coerenza strutturale piuttosto che dalla sua efficacia comunicativa.

Questa posizione ha generato una sorta di scisma culturale. Il pubblico, confuso e intimorito, ha iniziato a sentirsi inadeguato, incapace di "capire". L'atto dell'ascolto, che dovrebbe essere spontaneo e naturale, è stato sostituito da un esercizio critico e intellettuale riservato a pochi. La musica colta si è rinchiusa in un recinto elitario, perdendo la sua funzione originaria di arte condivisa. La reazione, inevitabile, è stata una progressiva emarginazione della musica contemporanea dai circuiti della fruizione popolare: mentre le sale da concerto continuavano a proporre i capolavori del passato, le nuove creazioni venivano percepite come ostiche, fredde, prive di emozione.

Non si tratta, sia chiaro, di condannare in blocco l'innovazione o la complessità. La musica non deve rinunciare alla profondità, alla ricerca, al pensiero. Ma deve ritrovare un equilibrio tra intelligenza e sensibilità, tra costruzione e partecipazione. L'errore è stato quello di sostituire il gusto con il concetto, l'ascolto con l'analisi, dimenticando che la musica vive nel tempo dell'esperienza, non solo nello spazio della partitura.


Riconoscere questa crisi significa aprire una riflessione sincera sul ruolo della musica oggi. Serve un nuovo umanesimo musicale, capace di ricomporre la frattura tra compositore e pubblico, tra tecnica e emozione, tra sapere e bellezza. Una musica colta che torni a parlare al cuore dell'uomo, senza per questo rinunciare alla propria complessità, è non solo possibile, ma necessaria. Solo così si potrà restituire alla musica la sua piena dignità di arte viva e vitale, capace di incidere nel presente e di orientare il futuro.

Questo rinnovamento non passa per una semplificazione superficiale né per un facile ritorno al passato, ma per una consapevole riscoperta del potere comunicativo della musica. Occorre ripensare la formazione del compositore, rieducare l’ascoltatore, ristabilire un dialogo tra innovazione e tradizione. La musica d’arte non deve parlare solo a chi la scrive, ma anche — e soprattutto — a chi l’ascolta. Solo una musica che si lasci ascoltare senza per questo rinunciare alla profondità potrà ritrovare il suo posto nella società.

In definitiva, il futuro della musica colta non può essere costruito sull’autoreferenzialità, ma sulla capacità di toccare, con autenticità, il sentire umano. Ritrovare questa via significa restituire alla musica il suo statuto più alto: quello di linguaggio universale dell’emozione e del pensiero.


Il silenzio che ci rende complici

Viviamo in un tempo in cui si confonde il silenzio con la saggezza, la discrezione con la prudenza, il mutismo con la neutralità. Ma non illudiamoci: chi tace di fronte all’ingiustizia non è neutrale, è complice. Chi non prende posizione, chi non scrive, chi non si espone, si condanna a diventare pietra inanimata e inutile, innocua per il potere. Un oggetto inerte che non fa paura, che non intralcia, che può essere ignorato o calpestato senza alcun problema.


Non serve tappare la bocca a chi non parla. È già spento, domato, assuefatto. Il potere – quello vero, arrogante, meschino – non teme chi urla. Teme chi pensa. Teme chi scrive. Teme chi osa dire “no”. Perché chi parla costringe gli altri ad ascoltare. Chi si esprime, smuove coscienze. Chi grida la verità, anche da solo, rompe l’incantesimo dell’obbedienza cieca. E allora, diciamolo chiaramente: il silenzio non è una virtù. È una colpa, quando serve solo a proteggere se stessi. È viltà, quando lascia che siano gli altri a esporsi. È resa, quando ci si convince che nulla può cambiare. Parlate, scrivete, esprimetevi. Non diventate pietre. Le statue non cambiano il mondo. Gli uomini sì.

Dove si impara

Quando un’aula di conservatorio si presenta asettica, priva di tracce della sua storia e della storia della musica che dovrebbe custodire e trasmettere, qualcosa si spezza nel patto implicito tra generazioni.

Un’aula dove si insegna musica non è un contenitore neutro. È, o dovrebbe essere, un luogo sacro, in cui la presenza dei grandi del passato – non solo evocata nei suoni, ma anche visibile, tangibile – possa ispirare rispetto, soggezione, gratitudine. Un’aula senza un ritratto, senza un manoscritto ingiallito, senza uno strumento antico, è come una chiesa senza icone, un teatro senza sipario, un tempio senza altare. La musica, senza memoria, rischia di diventare puro esercizio, priva di spirito.
L’aria condizionata, le sedie ergonomiche, le luci a LED sono conquiste del comfort. Ma se si perde il senso di appartenenza a una tradizione, se si cancella la polvere nobile del tempo in nome della neutralità funzionale, il conservatorio diventa un ufficio qualsiasi, un luogo dove si compila il modulo della tecnica, ma dove si smarrisce l’essenza del rito artistico.

E allora viene da chiedersi: che musicisti stiamo formando? Non tanto in termini di abilità, quanto di coscienza. Perché l’arte ha bisogno di radici. Senza radici, resta solo l’eco di qualcosa che non si sa più nominare.






Considerazioni domenicali in compagnia di Leopardi.

 

C'è un paradosso che ti accompagna con l'età che avanza: più negli anni ti avvicini all’arte vera, alla scienza più alta, al sapere profondo, più ti senti distante. Perché più vedi, più ti rendi conto di quanto resta da scoprire e che non farai in tempo a vedere. L’eccellenza, quella autentica, non si misura con gli altri, ma con l’idea luminosa, esigente e terribile di ciò che potrebbe essere. E più ci si avvicina, più si scopre quanto manca.

Chi è davvero grande non parla quasi mai di grandezza. La cerca, la insegue nelle piccole e grandi cose quotidiane, la teme e la serve; e nel servirla, si scopre sempre manchevole. Poi ci sono coloro che imitano questo gesto, il gesto nobile del paragone con l’ideale, ma lo fanno per mestiere, non per verità: fingono modestia per vestire meglio la loro vanità. Parlano di profondità senza averne mai visto il fondo, si mettono accanto all’Assoluto come ci si mette accanto a uno specchio: non per perdersi, ma per ammirarsi. E il pubblico applaude. Ma chi ha conosciuto la fatica del mestiere, chi sa cosa significa studiare, dubitare, ricominciare ogni giorno, li riconosce e tace, perché non c’è bisogno di smascherarli: basta mettersi ancora una volta al servizio di quell’idea di perfezione silenziosa, inattingibile e vera, che ogni giorno ci chiede di essere più profondi, più rigorosi, più onesti. L’uomo davvero grande si riconosce nella capacità di sottrarsi allo sguardo compiaciuto del mondo, di continuare a studiare, interrogarsi, tremare davanti alla bellezza e alla verità.

Chi è artista e formatore, questa differenza la conosce bene. L'ha vista ogni giorno, nei giovani che ha formato e nei colleghi che ha incontrato: chi cerca davvero la perfezione lotta, si mette in discussione, tace, studia e ristudia. Chi la finge, si compiace e spesso si racconta come già arrivato. È l’eterno contrasto tra l’apparire e l’essere.



Orchestre ieri e oggi

Rispetto a quand'ero studente, oggi le orchestre sono, sotto il profilo tecnico, a un livello straordinario. L’evoluzione dell'insegnamento strumentale, l’accesso illimitato al repertorio grazie alla discografia e alla rete, l’omogeneizzazione degli standard esecutivi a livello internazionale hanno portato a un’eccellenza diffusa. Le orchestre leggono tutto, suonano tutto, e lo fanno con una rapidità e una precisione un tempo impensabili.

In questo scenario, la figura del direttore d’orchestra non è più (se mai lo è stata) quella di un “metronomo umano” o di un sorvegliante di ingressi e dinamiche. Le orchestre non hanno bisogno di chi batte il tempo con insistenza o moltiplica i gesti per timore di non essere compreso. Hanno bisogno, invece, di interpreti dotati di una visione: direttori capaci di immaginare e proporre un'idea musicale forte, coerente, ispirata — e soprattutto di trasmetterla con autorevolezza e chiarezza in tempi spesso molto brevi.

È proprio questo il punto cruciale: la capacità del direttore non sta tanto nell’offrire molte indicazioni, quanto nell’illuminare in pochi gesti — e con le parole giuste — una direzione interpretativa riconoscibile, condivisibile, interiorizzabile. Il gesto, allora, non è più solo tecnico, ma carico di significato: evoca un fraseggio, plasma un carattere, suggerisce un suono.
Tutto ciò, però, non può nascere dal nulla. Richiede una preparazione immensa, profonda, stratificata. Non solo nello studio della partitura, ma nella conoscenza stilistica, nella cultura generale, nella consapevolezza storica e filosofica della musica. È un processo che si costruisce nel tempo, con l’ascolto, l’esperienza e, soprattutto, con la riflessione.


Jascha Horenstein

Le nuove generazioni, purtroppo, si trovano spesso a lottare contro un ambiente di fruizione musicale sempre più frammentato, istantaneo, dominato da ascolti “mordi e fuggi”. La velocità del nostro tempo rischia di produrre interpreti superficiali, abituati a “saltare” da un autore all’altro, da un’estetica all’altra, senza assimilare davvero nulla in profondità. Ma la musica non si improvvisa. Un’interpretazione autentica nasce da un percorso lento, da un’urgenza interiore che si nutre di studio, silenzio e tempo.

Per questo motivo, oggi più che mai, il direttore d’orchestra dovrebbe essere non solo un tecnico sopraffino, ma un pensatore musicale. Un artista consapevole, capace di incarnare e comunicare una visione e di risvegliare, con questa visione, l’intelligenza e la sensibilità dell’orchestra. Solo così l’esecuzione potrà elevarsi a vera interpretazione, e non restare una semplice (per quanto impeccabile) lettura.

Pensieri sull’inutilità di molti allestimenti lirici contemporanei.


In tempi recenti si è affermata nella regia lirica una tendenza sempre più invadente: l’ossessione per l’attualizzazione forzata. Sembra che molti registi, anziché interrogarsi sul senso profondo dell’opera, sulla sua drammaturgia musicale e sulla visione dell’autore, sentano il bisogno impellente di piegarla a ideologie, estetiche e costumi dell’oggi, spesso del tutto estranei al mondo poetico ed etico in cui quell’opera è nata.
Il risultato è un cortocircuito espressivo. Le passioni universali che animano il teatro musicale – l’amore, la gelosia, l’ambizione, il dolore, la vendetta, il destino – vengono ridotte a semplici pretesti per denunciare fatti di cronaca, per insinuare parallelismi politici grossolani o per ostentare una presunta modernità che, in realtà, invecchia nel giro di una stagione.
Collocare una Traviata in una sala d’aspetto di un aeroporto, ambientare Rigoletto in una periferia urbana da fiction televisiva, trasformare Don Giovanni in un magnate post-capitalista in giacca firmata e sneakers non aggiunge nulla – e spesso toglie molto – all’opera. Sono scelte che, nella loro pretesa di originalità, finiscono per tradire lo spirito stesso della partitura, del libretto e della forma teatrale in cui l’opera si compie.


Peggio ancora, quando il gioco dell’attualizzazione diventa propaganda, e il palcoscenico lirico – che dovrebbe essere luogo di immaginazione, sublimazione e confronto umano profondo – si riduce a megafono di ideologie del momento, la distanza con l’opera d’arte diventa siderale. Si rompe l’equilibrio tra verità teatrale e convenzione, tra parola cantata e gesto scenico, tra tempo storico e tempo drammatico. E con esso si spezza anche il patto con il pubblico, che spesso – nonostante tutto – continua a cercare in teatro un’esperienza di bellezza, verità e trascendenza, non un editoriale mascherato da spettacolo.
Non si tratta, sia chiaro, di invocare il museo, la ripetizione sterile o la fedeltà cieca alla tradizione. Al contrario: il teatro d’opera ha sempre vissuto grazie alla capacità di rigenerarsi, di parlare al presente, ma sempre rispettando la coerenza interna dell’opera e il linguaggio musicale che la sostiene. Un grande regista sa ascoltare la musica, sa leggere tra le righe del pentagramma, sa far emergere ciò che l’opera dice senza bisogno di forzarla. È quando il regista impone a priori una propria agenda sull’opera – incurante del suo DNA profondo – che nasce l’inutilità, o peggio, l’arbitrio.
L’opera non ha bisogno di travestimenti per essere attuale. Le grandi opere lo sono da secoli, proprio perché parlano al cuore dell’uomo, non alla contingenza della moda. Ascoltiamole, rispettiamole, serviamole: saranno loro a parlarci dell’oggi, molto meglio di quanto possa fare un costume contemporaneo posticcio o un riferimento politico didascalico.