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martedì 25 novembre 2025

Tod und Verklärung, un portale spazio-tempo

Sarà stato il 1970 o giù di lì,  avevo quindi circa 15 anni. Puntualmente, ogni venerdì, avevo l'abitudine di ascoltare alla radio i concerti sinfonici delle orchestre RAI. Quel giorno ebbi occasione di scoprire una composizione che poi, per decenni, mi avrebbe perseguitato a causa della sua difficoltà di elaborazione musicale e psicologica. Ricordo che dirigeva il grande Sergiu Celibidache, allora a me totalmente sconosciuto.

A distanza di tempo, ogni volta che ascolto Tod und Verklärung, ho la sensazione di entrare in una zona dove la musica non descrive più qualcosa, ma lo rivela. Questa rivelazione mantiene sempre in me un margine di mistero che non riesco a sciogliere. Soprattutto, mi sorprende che tutto ciò sia stato il frutto di un uomo di quarant’anni ed ogni volta mi domando da quale profondità o da quale intuizione Strauss abbia attinto per disegnare un viaggio che sembra appartenere a qualcuno già in equilibrio tra due mondi.

Nel corso di anni, grazie allo studio della partitura e all'ascolto, ho trovato dettagli molto precisi, razionali, persino controllati. Eppure, ciò che ho percepito è l’esatto opposto, ovvero un’apertura verso qualcosa che sfugge alla comprensione. C’è un punto, sempre lo stesso, in cui il suono sembra perdere la propria gravità e farsi più sottile, come se l’orchestra stessa si staccasse dal terreno. È lì che nasce quella sensazione strana, quasi un brivido, cioè l’idea che la musica non stia solo accompagnando un morente, ma stia insinuando la possibilità di un’altra dimensione.

Richard Strauss, nel 1904

Non so come accada, perché non c’è un effetto evidente, niente che Strauss sottolinei in modo plateale. Arriva a quel punto e basta, come quei pensieri improvvisi che capitano nei momenti di silenzio, quando ci si accorge per un attimo di trovarsi su un limite che non si sapeva di possedere. La musica, gradualmente, passa dal peso alla trasparenza, dalla sofferenza ad una luce che non sembra più del tutto umana. Non una consolazione e nemmeno una risposta, ma qualcosa che assomiglia più a un varco socchiuso, uno spiraglio fra la luce e il buio. La “trasfigurazione” finale resta per me uno dei momenti più enigmatici della musica che conosco. Non mi parla di salvezza né di redenzione, ma di una prospettiva altra, come se la coscienza potesse, nel suo ultimo istante, intravedere qualcosa che non appartiene allo spazio in cui viviamo. È un pensiero che non saprei spiegare, ma che ogni volta mi sorprende nello stesso modo, con una lucidità improvvisa, quasi vertiginosa.

Forse è per questo che torno a Tod und Verklärung, anche quando non so bene cosa sto cercando. Perché in quella musica trovo un mistero che non pesa, che non spaventa, ma che allarga. Un mistero che non chiede di essere risolto, solo ascoltato. Strauss ha tracciato un percorso che non appartiene solo a chi sta morendo, ma a chi, vivendo, sospetta che dietro al mondo visibile ci sia un altro strato, un’altra possibilità. Ad ogni ascolto quel sospetto ritorna fresco, stupefatto, come se la musica mi avesse appena aperto un varco. Anche solo per un istante.

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