Il
Direttore d’Orchestra
Ovvero
Concertatore
o Sconcertatore?
La vita si
può capire solo all'indietro, ma si vive in avanti.
Sören
Kierkegaard
Come
premessa, qualche memoria.
Ancora
studente, nella primavera del 1977, insieme con alcuni compagni della classe di
Direzione d’Orchestra del conservatorio, per la prima volta ebbi la fortuna di
osservare da vicino il grande Lorin Maazel, per l’occasione invitato a dirigere
un concerto alla Scala con tutte musiche di Beethoven: l’Ouverture Egmont, la
Quarta e la Sesta Sinfonia. Fino a pochi mesi prima, i direttori e i solisti
potevo soltanto ascoltarli esclusivamente in concerto e raramente ad una prova
generale pubblica.
A quel
tempo, devo dire che per tutti noi fu una vera e propria fortuna avere
l’ingresso libero in sala e poter assistere alle straordinarie prove di giganti
del podio, della tastiera e dell’archetto.
Come quasi
tutti i giovani aspiranti e inesperti direttori, anche noi avevamo la
consuetudine di studiare le partiture non mancando di rilevarne i punti
salienti, di sovente apponendovi segni rossi e blu, come se la memoria
strettamente musicale non fosse di per sé sufficiente al loro possesso. Durante
l’intervallo di una prova, quasi furtivamente ci avvicinammo al podio e con
ostentata indifferenza uno di noi riuscì ad aprire la partitura del Maestro,
ovviamente pensando di poter carpire qualche preziosa “ricetta” apposta in
calce alle pagine. Con meraviglia di tutti la partitura si presentò ai nostri
occhi pressoché intonsa e ovviamente priva di alcun segno. Fu allora che
improvvisamente compresi quanto il dominio dell’opera musicale dovesse essere
totale, senza necessità di alcun ausilio mnemonico eccetto quello di una pura
immagine musicale acquisita in fase di studio.
Qualche
giorno dopo, armato di determinazione e depauperando il portafoglio dai primi
guadagni ottenuti come aiuto commesso alla Ricordi e quelli conquistati grazie
ad alcune lezioncine impartite a domicilio a viziate e antimusicali ragazzine,
mi recai nello storico e vissuto negozio Gallini, all’inizio di Via
Conservatorio, e riacquistai una decina di partiture tascabili, in altre parole
tutte quelle “studiate a fondo” sino a quel momento. Arrivato a casa, con
coraggio e un po’ di amarezza, stracciai le care partiture tascabili Eulenburg in 16°. Ovviamente
intrapresi l’operazione avendo cura che non si potesse più ricomporle. Da quel
momento, a parte qualche segno indicante un fraseggio, un’arcata o uno
sporadico simbolo personale da me ideato per indicare le note da eseguirsi
senza accento, le mie partiture accompagnarono il mio studio presentandosi ai miei occhi senza inutili e scontati segni.
Non tutti i
direttori d’orchestra hanno però la medesima abitudine. Le partiture di molti
grandi direttori da me incontrati, ad esempio quelle di Leonard Bernstein,
apparivano come un vero e proprio campo di battaglia. Più che studiate, erano
amate e odiate, tormentate, possedute fisicamente. Come si può ben comprendere,
non esiste un metro comune finalizzato allo studio e alla memorizzazione della
musica. Sostanziale è il risultato finale, che dovrebbe permettere al direttore
di governare l’esecuzione, in prova e in concerto, senza dover per forza
ricorrere alla lettura della partitura. Il dominio della composizione musicale
deve sussistere in modo totalizzante, tale da riuscire a essere trasmesso senza
indugi agli esecutori e, per ultimo, all’ascoltatore. I veri direttori, quindi
i veri interpreti, comprendono quanto sia indispensabile svincolare la mente da
improduttivi condizionamenti, come la dipendenza dalla lettura delle note,
affinché sia possibile viaggiare all’interno della musica il più liberamente
possibile. Altri preferiscono svolazzarle intorno sfogliandone la partitura,
come quando capita di scorrere al mattino le pagine di un quotidiano, tanto per
aver conferma delle notizie già apprese in tv poche ore prima.
Tornando a
Lorin Maazel e al nostro primo incontro con questo grandissimo e geniale
musicista, ricordo un piccolo ma esemplificativo momento della sua prima prova
con l’orchestra. Era da poco iniziata la prova e Maazel, che dirigeva seduto e
con indosso un appariscente paio di occhiali scuri, segnalò al fagotto che il
la bemolle basso era crescente. Per diversi minuti non disse altro, continuando
a dirigere con la partitura chiusa davanti a sé. Più avanti chiese di dividere
le arcate fra le sezioni delle viole e dei violoncelli nel finale di Egmont e
l’impiego della sordina per il secondo movimento della sesta sinfonia. Per il
resto, preferì governare il tutto esclusivamente col gesto, per sua natura
razionalissimo ed efficace. Di quella prova, ho memoria di un paio di altre
osservazioni tecniche, peraltro poco rilevanti al fine dell’esecuzione. Ricordo
invece benissimo quanto riuscì a ottenere, ai fini dell’interpretazione,
soltanto con l’espressività del suo gesto e finalmente, una vola tolti gli
occhiali scuri, con lo sguardo.
Ovviamente,
a noi giovani adepti di una disciplina musicale della quale avvertivamo a
quel tempo soltanto la sua parte più tangibile, le osservazioni di Maazel
apparivano come illuminazioni, intuizioni straordinarie riservate a pochi
eletti. Ancora avevamo da scoprire quanto “mestiere” ed esperienza stesse
dietro a un’attività che, sotto diversi aspetti, avrebbe talvolta potuto
manifestarsi alquanto ripetitiva e altresì rivelarne lati meno nobili, ancora
sconosciuti a tutti noi.
In quegli
anni di studio, gloriosi per la Musica e un po’ meno per l’Italia, a causa dei
conflitti politici e sociali nei quali si trovava, ebbi l’opportunità
d’incontrare molti grandi direttori e osservarli all’opera. Tutti loro,
estremamente rispettosi del testo musicale, avevano una caratteristica che li
accomunava: non sollecitavano mai gli esecutori a eseguire ciò che in partitura
non era scritto. Soprattutto non erano mai alla ricerca di stranezze,
personalismi, sonorità fuori luogo. Magicamente, ognuno li loro aveva la
straordinaria abilità, secondo la propria sensibilità, di plasmare la partitura
in questione senza doverne per forza travisare il significato. Ovviamente,
tutti mostravano consapevolezza verso il testo, esclusivamente perché erano in
grado di ricrearlo e collocarlo nel tempo storico appropriato, conoscendo bene
lo stile in questione e, più di ogni altra cosa, essendo evidentemente a
conoscenza delle precedenti grandi interpretazioni e avendone sincera
consapevolezza.
Frequentando
le prove di molti altri direttori, grandi e meno grandi, comunque quasi sempre
professionali, osservati all’opera con l’orchestra della Scala o con
l’orchestra della RAI, mi stupii sin dall’inizio per la diversità del suono che
ognuno di loro, già dal primo approccio, riusciva a ottenere. Unicamente con la
presenza e la trasmissione immediata di una precisa idea musicale, l’orchestra
appariva da subito più o meno intonata e con una maggiore o minore definizione
del colore strumentale. Anche l’assieme, per nulla scontato anche alla presenza
di mirabili spadaccini, differiva di volta in volta e non sempre corrispondeva
alla precisione gestuale che ci si sarebbe aspettata.
Quando
rammento ai miei giovani e meno giovani allievi questi fatti e le mie personali
esperienze, incontro talvolta una sorta di scetticismo riguardo all’eventualità
che, anche in presenza di un gesto preciso, l’orchestra non si ritrovi per
forza nella condizione di rispondere allo stesso modo. Infatti, non era così
ieri, non lo è oggi, né lo sarà domani. I motivi non sono ovviamente
esplicabili soltanto per mezzo di spiegazioni di tipo tecnico, bensì grazie a
molte intuizioni, alla coscienza musicale e, per ultimo, del proprio vissuto.
Gli incontri ravvicinati con artisti di grosso calibro, mi sono serviti
moltissimo durante l’arco della professione, potendone frequentemente rivivere
in persona la validità degli insegnamenti e verificarne direttamente
l’efficacia durante le fasi di preparazione con l’orchestra. Negli anni, ho
modificato inevitabilmente il mio pensiero e, di conseguenza, il mio approccio
alla “ri-creazione” della composizione musicale. Un percorso che il direttore
inizia dalla prima fase di studio della partitura, cerca di consolidare durante
le prove e spera possa concretarsi durante il concerto.
Era il 1975
e Carlo Maria Giulini, durante uno dei miei primissimi incontri nel suo studio
di via Ciovasso, nel quartiere Brera, riuscì a stupirmi battendo le mie
convinzioni giovanili. “ Guardi, (si rivolgeva sempre col “Lei”) la
lezione di direzione d’orchestra si conclude in cinque minuti di spiegazione:
un-due, un-due-tre, un-due-tre-quattro“. Con poche e risolute parole riuscì a
illuminarmi su temi sostanziali intorno alle Ragioni
della Musica. Anni più tardi,
ero già in attività, il grandissimo Franco Ferrara completò sulla stessa linea
la mia iniziale formazione col suo generoso e agognato Imprimatur.
Il mio primo
insegnante di direzione, Mario Gusella, per decenni primo violoncello
dell’orchestra della Scala e poi passato al podio, riuscì a tramandarci
un’eccellente tecnica gestuale. Egli era stato allievo di Hermann Scherchen,
noto agli studenti più accorti per l’ancora attuale e insuperata opera
didattica “Il Manuale del Direttore d’Orchestra”. Da lui aveva appreso
fondamentali nozioni e con caparbietà aveva insistito coi suoi allievi affinché
ne ricalcassero il percorso. Indubbiamente, tutti ne hanno giovato e in verità
devo dire, mi si perdoni la franchezza, che anche quelli a mia memoria meno
dotati, rispetto a certi personaggi oggi in circolazione, erano da considerare
dei fuoriclasse.
All’inizio
del percorso musicale, un giovane direttore tende inevitabilmente ad affidarsi
a percorsi sicuri. E’ generale convinzione che in presenza di un gesto preciso
del direttore, grazie ad una scansione ritmica rigorosa e magari con generosità
di attacchi agli strumentisti, si possa governare efficacemente l’orchestra
garantendo una buona esecuzione. Il gesto fisico, primo biglietto da visita del
direttore, è soltanto una delle caratteristiche specifiche delle quali egli
dovrebbe essere dotato. E’ sicuramente la più appariscente e quella che ne
definisce sin dall’inizio la professionalità e l’affidabilità, esattamente come
il comandante di una nave e la sua responsabilità nel condurla in porto con
l’equipaggio e i passeggeri incolumi. Se poi il comandante è antipatico, non
saluta, è fiscale e, anziché sorridervi mostrando le bellezze dei luoghi dove
approda osserva impazientemente l’orologio, poco importa. Per la compagnia di
navigazione ha fatto indubbiamente il suo dovere…
Un equivoco
comune: la tecnica direttoriale.
Esistono
molte scuole, chiamiamole correnti di pensiero, che puntigliosamente insistono
sull’acquisizione di basilari (a volte molto personali) principi di tecnica
direttoriale, estensibili all’esecuzione di tutta la musica e a prescindere dal
momento, dal luogo, dalla situazione particolare o complessiva nella quale il
direttore si trova a operare. La particolarità di questa disciplina musicale,
la sua relatività in mancanza di effettive possibilità di riscontro
“scientifico” (la bacchetta, come si dice da sempre, non fa stecche) e il
legame stretto con la figura di showman del direttore, da sempre è stata
oggetto di fraintendimenti da parte dei musicisti, da parte dei responsabili
delle programmazioni e da parte del pubblico. La carenza di un’effettiva
cultura musicale generale che superi le convenzionalità da manuale o sia
svincolata da requisiti puramente tecnici, è una caratteristica diffusa anche
fra gli addetti ai lavori. E’ uno svantaggio che impedisce di percepire la
parte più profonda dell’arte direttoriale che, inevitabilmente, rimane relegata
alla sua esteriorità non consentendo di comprenderne sufficientemente il
valore.
All’inizio
dell’attività, un giovane direttore è ovviamente rassicurato dalla propria
prestanza fisica e dalla propria salute. Generalmente si ritiene appagato per
le conquiste quotidiane conseguite in fase di studio e soprattutto quando
riesce a realizzarle nell’ambito del breve tempo di prova che gli viene
implacabilmente imposto in occasione di un concerto. Non si è ancora trovato
nella condizione favorevole che gli consente di elaborare un personale concetto
inerente alla propria responsabilità e al rapporto certamente così speciale con
il gruppo col quale ha la fortuna di operare. Soprattutto, difficilmente ha
avuto il tempo per affinare la propria sensibilità e per comprendere
interamente il rapporto di azione-reazione legato al suo comando. Quasi sempre,
è ancora inevitabilmente legato alla formazione tecnica appena ricevuta e non
ha ancora avuto la possibilità di elaborare un pensiero specifico intorno ad
esso. Allo stesso modo, gli orchestrali più giovani e acerbi, privi
ancora di quelle esperienze umane che si spera ne faranno veri musicisti, non
sono ancora nella condizione esistenziale per comprendere appieno la funzione
del direttore, se non apprezzandone il lato esteriore, grazie alla sua
sicurezza e alla sua efficienza. Col passare degli anni, il rapporto dell’
esecutore col direttore d’orchestra è inevitabilmente destinato a subire
sostanziali trasformazioni, quest’ultime dovute principalmente
all’invecchiamento psico-fisico di entrambi.
Durante la
nostra giovinezza, salvo che non esistano sfortunate difficoltà, anche in
presenza di correzioni la nostra capacità visiva ci permette di mettere a fuoco
oggetti posti in lontananza, a media distanza e vicino a noi. Siamo in grado di
studiare una partitura in treno, contemporaneamente possiamo osservare il
paesaggio e magari notare l’insegna della stazione che stiamo attraversando in
quel momento. Con l’avanzare dell’età, soprattutto per i miopi, subentra
l’impossibilità di focalizzare la media distanza e ci si ritrova molto spesso a
impiegare anche tre paia di occhiali con gradazioni differenti per poter
agevolmente leggere, guardare la tv o guidare l’automobile. A cinquant’anni e
oltre, un esecutore affetto da miopia e seduto in orchestra, magari a otto
metri di distanza dal direttore, difficilmente riuscirà a focalizzarlo
pienamente, se la sua vista sarà in quel momento impegnata nella lettura dello
spartito. Ne avvertirà una figura sbiadita e faticosamente potrà percepirne
l’esattezza dei movimenti. Stranamente però, sarà comunque influenzato dal
clima particolare che il direttore, in vario modo, saprà instaurare con tutti i
musicisti. Paradossalmente potrà anche non osservarlo attentamente per tutta la
durata di una prova o di un concerto, ma essere nella condizione di eseguire
alla lettera ogni sua indicazione. Ovviamente, questa particolare
circostanza riguarda in senso lato tutta l’orchestra che, non bisogna
dimenticare, è uno strumento unico e particolare nelle mani del direttore.
L’unica differenza è che i suoi tasti soffrono, ridono, piangono, gioiscono, si
preoccupano e si lamentano. Sfortunatamente, anche dopo decenni di attività,
molti direttori d’orchestra tendono a trascurare questa particolarissima
diversità, dimenticando la differenza sostanziale esistente fra uno strumento
costituito di carne e ossa e un altro fabbricato di legno e metallo. Allora,
inevitabilmente, la loro arte appare come imprigionata fra le mura di un
tecnicismo insopportabile e dell’inevitabile routine. La peggior casa dove la Musica possa trovare dimora.
Chiunque
abbia avuto occasione di suonare sotto la bacchetta di alcuni grandi direttori
della “vecchia scuola”, non può negare che avessero una particolare attitudine:
ottenevano molto dall’orchestra ma col minimo sforzo. Perdi più, molti di loro
non possedevano quelle particolari abilità gestuali tipiche della nostra epoca
e che sono divenute peculiarità comuni a molti direttori. Lo “standard”
tecnico, anzi tecnologico, ha fatto sì che l’omologazione abbia inevitabilmente
influenzato le scuole di direzione d’orchestra un po’ di tutto il mondo e,
apparendo così semplice da acquisire nei suoi banalissimi principi, abbia
contribuito a diffondere l’ambizione per quest’arte in modo esponenziale, non
sempre con risultati lusinghieri per la Musica.
Ricordo
quando vidi per la prima volta in prova un già molto anziano Karl Böhm dare
l’attacco dell’Ouverture del Fidelio. Iniziò con un tremolio della bacchetta
che, partendo dal basso, si estese in altezza raggiungendo un punto dove si
fermò per un istante, per poi precipitare verso il basso. Mi sarei atteso una
catastrofica e disordinata partenza da parte dell’orchestra e in quel levare,
durato un frammento di secondo, ebbi la netta sensazione che nessuno avrebbe
attaccato. Con incredulità mista a commozione ascoltai non un attacco, bensì un
boato. Sembrava che una granata fosse esplosa a pochi metri, con un suono
secco, potente e al contempo luminosissimo. Nessun orchestrale commise
imprecisioni e non ci fu alcuna esitazione. All’entrata dei corni, alla quinta
battuta, tutto il clima dell’opera era già definito nei suoi colori e nel suo
ritmo. Böhm, magicamente, aveva
avvisato tutti: attenzione, c’è Beethoven in sala.
Quest’episodio,
che non scordo mai di citare ai miei allievi, dimostra quanto l’idea musicale
sia alla base di tutto. Con essa, anche in presenza di un attacco infelice da
parte del direttore, difficilmente l’orchestra potrà esser tratta in inganno.
Potranno verificarsi piccoli squilibri, ma la struttura principale
dell’interpretazione resterà intatta, raggiungendo il suo scopo: ridare forma e
vita alle note stampate in partitura. E ciò vale per tutte le circostanze nelle
quali un direttore si trova a operare: con orchestre ottime, di medio livello o
amatoriali. La padronanza della partitura, se elaborata nel profondo e quindi
trasmessa al gesto, farà sì che al suo attacco l’orchestra si ritroverà non
solo equilibrata nel ritmo, ma anche intonata e plasmata nel suono. E’ per
questo motivo che le scuole di direzione d’orchestra, dove s’insiste soltanto
sulla precisione del gesto e sugli equilibrismi “da farmacista”, come diceva
Franco Ferrara, sono fallimentari. Insegnare il levare e il battere,
l’accelerando e il rallentando, sono tutte nozioni più adatte alle scuole
guida: esattamente come insegnare a premere sull’acceleratore e tirare il freno
a mano. Ci si dimentica che il direttore, come tutti gli esecutori, si occupa
in primo luogo di suono ed è a esso che deve costantemente far riferimento.
Nella propria concezione del suono, dove la Musica trova il primo legame, sono
riposti anche il ritmo e l’intonazione. Per questo motivo, coi miei giovani
allievi che per le prime volte si mettono alla prova in sperimentazioni
direttoriali, insisto affinché pensino sempre al suono che desiderano ottenere
dall’orchestra e non soltanto al ritmo indispensabile per farla partire.
Soltanto con l’acquisizione di questa coscienza sonora, che parte già durante
lo studio della partitura, essi si ritroveranno nella condizione ottimale per
governare l’esecuzione.
Il massimo
della stupidità si raggiunge non tanto ingannando gli altri ma sé stessi,
sapendolo. Si può ingannare tutti una volta, qualcuno qualche volta, mai tutti
per sempre.
John
Fitzgerald Kennedy
Specchio,
specchio delle mie brame, chi è il direttore più affascinante del reame?
L’infelice
situazione nella quale è oggi precipitata l’esecuzione musicale, anche a causa
della deformazione del gusto arrecata dal perfezionamento ossessivo delle
registrazioni, è principalmente legata all’affannosa ricerca per l’immacolato
esito tecnico. Si tratti di solisti o direttori, poco cambia. D'altronde, i
tempi dettati dal “mercato” sembrano imporre inevitabilmente agli artisti uno
stretto percorso da seguire. Si tratta di scegliere una via comoda e talvolta
infelice o una più faticosa e gratificante. Ognuno può tranquillamente
privilegiare l’una o l’altra, dipende dalla propria forza d’animo, dalla
determinazione e dal rispetto che si nutre nei confronti della Musica.
In assenza
di tempo sufficiente per maturare un’idea personale della composizione, molti
direttori oggi si accontentano di ovvi risultati e sono talvolta costretti a
prodursi in operazioni alquanto infelici per la Musica. Nei migliori dei casi,
avendo la fortuna di dirigere orchestre di alto livello tecnico, più di tanti
danni non producono, anche se le orecchie allenate e aristocratiche dei buoni
musicisti rabbrividiscono al primo fraseggio fuori stile o alla velocità
inadatta di un’esecuzione.
Non si pensi
che simili circostanze siano una rarità. Come è risaputo, molte ottime compagini
sono oggi inadeguatamente guidate da ex-solisti passati al podio, in genere
ex-virtuosi che pensano di poter avvalersi dell’orchestra facendola suonare
alla medesima velocità delle loro ex-dita, oppure da giovinetti pieni di
vitalità e con molti capelli… Ci sono poi i bulimici musicali, quelli che se
stanno fermi un giorno non sanno come valorizzare la propria vita e quindi
passano continuamente dallo strumento al podio e viceversa. I primi si
cimentano di solito in interpretazioni di tipo nevrastenico, non
riuscendo a sincronizzare il respiro da solista con quello più largo richiesto
dall’orchestra. I secondi, i direttori al testosterone puro, confondono
frequentemente Beethoven con Prokofiev e Brahms con Ravel, sortendo
interpretazioni enigmatiche, se non completamente campate in aria. Gli ultimi,
a volte i più patetici, sono quelli che anche dopo cinquant’anni di
attività ritengono di essere sempre giovani e sempre gli stessi. Avendo
trascorso buona parte della vita blindati in un mondo irreale (albergo-taxi-teatro-taxi-albergo-taxi-aeroporto) capita che non si accorgano che il tempo è trascorso inesorabilmente per tutti e che la
loro gloriosa figura, un tempo celebrata ma ormai inesorabilmente appannata,
non si adatta più all’attualità dei tempi.
Effettivamente,
sembra proprio che i danni alla Musica siano quotidianamente perpetrati dai
direttori, in diversa misura e in vario modo. A salvarla ci pensano, per quanto
a loro sia possibile, i musicisti delle orchestre. Abituati a impegnarsi quotidianamente
per il perfezionamento del loro livello, difficilmente riescono a forzare la
propria natura e produrre incidenti più di tanto. Anche in presenza di
indicazioni e idee sbagliate da parte del direttore di turno, faranno del loro
meglio per rendere la loro opera dignitosa e appropriata. I salvataggi di
esecuzioni portate a circostanze angoscianti da parte dei direttori sono
all’ordine del giorno. Che si tratti della Filarmonica di Marte o della
Sinfonica del Po, le situazioni tendono inevitabilmente a replicarsi. Sì,
proprio come un virus: quello della “Podiomielite”.
In genere, i
danni più gravi sono compiuti dai direttori d’orchestra meno dotati, meno colti
e palesemente inadeguati, soprattutto quando si ritrovano a guidare le
compagini giovanili. Non è raro vederli all’opera con orchestre di ottimo
livello formate da musicisti che, evidentemente, ne sanno più di loro. I
disastri iniziano quando questi mediocri personaggi pretendono di suggerire
fraseggi, arcate e sonorità iappropriate. L’opera finale è solitamente
paragonabile a quella consumata da un’arma di distruzione di massa. I
sopravvissuti, seppur gravemente feriti, una volta soccorsi e guariti tendono a
dimenticare l’orrenda esperienza, ma i più deboli ne possono pagare le
conseguenze per molto tempo. La gravità della situazione colpisce
principalmente chi, da giovane, avvicinandosi per le prime volte alla Musica,
ha occasione di assistere a concerti inappropriati. Difficilmente potrà farsi
un’idea dell’opera musicale che sta ascoltando e, ancor di più, costruirsi
un’onesta opinione intorno alla funzione del direttore. Per fortuna, nel mare
magnum delle esecuzioni musicali, sopravvivono alla portata di tutti le grandi
interpretazioni del passato, più o meno un secolo di archivi dove, chi è interessato,
sinceramente motivato e fortemente desideroso di apprendere, può attingere
felicemente a completamento della propria formazione.
Alcuni dei
miei più consapevoli allievi, non mancano mai di segnalarmi spassosissimi
filmati, presenti sul web, di direttori alle prese coi capolavori musicali del
passato. Il più gettonato fra questi è quello con un’esecuzione della Quinta
Sinfonia di Beethoven da parte di una efficientissima e roboante orchestra
giovanile del Sol Levante, diretta da un anziano, improponibile,
indecifrabile e manifestamente antimusicale direttore. L’ho guardato e
riguardato, ma mi è ancora incomprensibile come l’orchestra si sia ritrovata
nelle condizioni di seguirlo. Probabilmente devono aver minacciato di
ritorsione le intere loro famiglie… Ilarità a parte, è evidente che il ruolo
del capo affascina. I dittatori non sono più di moda, i capipopolo nemmeno e la
scelta ovviamente si restringe a limitate, e ancor per poco, nobili attività.
Qui preferisco fermarmi, perché dovrei iniziare un trattato di psichiatria e,
non avendone né la competenza né il desiderio, preferisco non attrarmi
ulteriori antipatie. Preferisco pensare che l’amore per la Musica sia talmente
forte e preponderante da rendere ciechi e sordi coloro i quali ritengono che la
bacchetta sia identificabile allo stesso modo di uno scettro nelle mani del
regnante di turno. Sfortunatamente per loro, anche le monarchie, poco a poco,
stanno lasciando spazio alla democrazia, un concetto di governo di per sé
imperfetto, ma fino a oggi imbattuto. Infatti, Sir Wiston Churchill ne diede
una definizione molto appropriata e ancora insuperata: “Molte forme di governo sono state
sperimentate e saranno sperimentate in questo mondo di peccato e di dolore.
Nessuno ha la pretesa che la democrazia sia perfetta o onnisciente. Infatti, è
stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo ad eccezione di
tutte le altre forme che sono state sperimentate di volta in volta.”
Il ruolo del
direttore, investito dell’autorità che la circostanza gli riserva, non dovrebbe
mai essere separato dalla sua autorevolezza, sempre che quest’ultima sia a lui
connaturata. Una domanda, però, sorge spontanea: molti direttori, sono nella
condizione di avere un’effettiva consapevolezza? A giudicare
dal comportamento generale, a parte il desiderio di glorificare se stessi e di
una bramosia di fama, molti direttori d’orchestra rivelano chiaramente di non
avere a cuore un vero amore per la Musica. La superficialità e la faciloneria
che spesso li accomunano, caratteristiche impensabili per il proseguimento
della professione di strumentisti o cantanti, sembra che siano insufficienti
per impedir loro di perpetuare atti vandalici ai capolavori di geni che, se
fossero ancora in vita, non esiterebbero un istante a sfidarli a duello o, nel
migliore dei casi, a citarli in giudizio. Soprattutto, pensando che le
orchestre debbano ubbidire come un tempo facevano gli eserciti, oltre a
commettere atto di presunzione e arroganza, dimostrano di non aver compreso
appieno il loro ruolo in un mondo che, nel giro di pochi anni, è profondamente
mutato e che è proiettato sempre più verso cambiamenti profondi e radicali.
L’intelligenza dell’odierno direttore-interprete, risiede sicuramente nella sua
capacità di adattamento, ma prima di tutto nella sua effettiva volontà di
riconsiderare il proprio ruolo in termini meno individuali e più collettivi.
Non scordare che egli è l’ ”accordatore” dell’orchestra e che ogni volta, come
non mancava di ricordare Carlo Maria Giulini, è sottoposto alla faticosa
responsabilità di doverla per forza riaccordare.
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