Cerca nel blog

domenica 31 agosto 2025

Il diritto d’autore tra memoria morale ed eredità economica

Il diritto d’autore nasce storicamente come strumento di tutela della creatività. Esso riconosce all’autore il potere di controllare la riproduzione, l’uso e la diffusione delle proprie opere, assicurando al contempo un ritorno economico che renda possibile la vita stessa dell’attività artistica. È difficile immaginare la fioritura di letteratura, musica e arti visive senza un sistema di garanzie che dia agli autori la possibilità di trarre beneficio dal proprio lavoro. Tuttavia, l’attuale configurazione del diritto d’autore solleva questioni profonde quando si estende per decenni dopo la morte dell’autore, trasferendo i diritti economici agli eredi. Questa eredità giuridica, se da un lato può apparire naturale in un contesto patrimoniale, dall’altro si scontra con l’essenza stessa del fatto creativo: l’opera, una volta compiuta, diventa parte di una cultura collettiva.

La tensione tra morale ed economia

La distinzione tra i diritti morali e i diritti economici è cruciale. I diritti morali (come il diritto al riconoscimento della paternità dell’opera o alla tutela della sua integrità) hanno una durata illimitata. Essi rispondono a una necessità etica: l’opera non deve essere decontestualizzata, falsificata o attribuita ad altri, perché ciò lederebbe la memoria e la dignità dell’autore. I diritti economici, invece, rispondono a logiche materiali e commerciali. Il problema nasce quando essi si prolungano oltre la vita dell’autore, spesso fino a 70 anni dopo la morte (e in alcuni ordinamenti ancora di più). A quel punto, non si tratta più di tutelare l’autore, che non esiste più, bensì i suoi eredi o, sempre più spesso, enti e case editrici che hanno acquisito i diritti. La tutela, dunque, smette di essere un riconoscimento della creatività individuale e si trasforma in un monopolio di sfruttamento economico.

Un effetto di censura culturale

Questa estensione temporale eccessiva ha conseguenze concrete sulla diffusione culturale. Restrizione dell’accesso: eseguire una musica, ripubblicare un testo o diffondere un film può diventare oneroso. I costi di noleggio e licenza limitano chi non dispone di risorse economiche, impedendo la libera circolazione del patrimonio culturale. Censura indiretta: non si tratta di censura politica, ma economica. Se un giovane musicista non può permettersi di eseguire un brano di un autore morto da 60 anni, la sua voce artistica è di fatto zittita. Ritardo nell’ingresso nel dominio pubblico: opere che potrebbero diventare patrimonio dell’umanità, liberamente fruibili e reinterpretate, restano confinate dietro una barriera legale. L’umanità deve attendere quasi un secolo perché esse diventino parte di un vero spazio comune.

La sproporzione storica

Quando il diritto d’autore venne codificato tra XVIII e XIX secolo, l’aspettativa di vita era molto più bassa e la protezione oltre la morte dell’autore aveva un senso limitato: garantire un sostegno alla vedova o ai figli minorenni. Oggi, con un’aspettativa di vita molto più lunga e sistemi di benessere consolidati, l’estensione fino a 70 anni "post mortem" appare anacronistica. In molti casi, gli eredi che beneficiano dei diritti non hanno alcun legame diretto con la vita creativa dell’autore, vivendo di rendita su opere che non hanno contribuito a realizzare.

Vanitas - Edwaert Collier

Patrimonio dell’umanità e bene comune

La cultura non è solo frutto dell’individuo, ma anche di un contesto sociale. Un musicista, uno scrittore o un regista si nutre della tradizione che lo precede, della lingua, delle correnti artistiche, delle suggestioni di un tempo storico. Per questo, sostenere che un’opera debba restare vincolata a logiche privatistiche per quasi un secolo dopo la morte dell’autore contraddice la natura stessa del processo creativo: un dialogo costante tra passato e presente. La funzione del diritto d’autore dovrebbe quindi concentrarsi nel garantire un giusto compenso all’autore durante la sua vita e, in misura ragionevole, a coloro che dipendono direttamente da lui. Oltre tale soglia, la cultura deve tornare ad appartenere alla collettività.

Conclusione: verso una riforma necessaria

Il prolungamento dei diritti economici post mortem appare, a uno sguardo critico, come una forma di privatizzazione indebita del bene culturale. È un meccanismo che ostacola la diffusione del sapere e frena la creatività delle nuove generazioni, costrette a operare entro confini artificiali. Un equilibrio più giusto sarebbe quello di limitare i diritti economici al periodo di vita dell’autore e a un arco temporale contenuto dopo la sua morte (ad esempio 10 o 20 anni), sufficiente a proteggere i familiari più prossimi. Dopo di che, le opere dovrebbero entrare nel dominio pubblico, diventando liberamente accessibili.

Solo così la cultura potrà svolgere appieno la sua funzione: non un privilegio di pochi, ma un patrimonio condiviso, fertile e generativo, che appartiene a tutta l’umanità.


lunedì 18 agosto 2025

Memoria, vita o sterile conservazione?

Avvicinandomi ai settant’anni, sento che il mio rapporto con la memoria è diventato più fragile e insieme più prezioso. Non mi riferisco soltanto al ricordo dei fatti, ma a quella sottile alchimia che trasforma un avvenimento in significato. Una volta ero convinto che la memoria fosse soprattutto conservazione: trattenere, proteggere, difendere dall’oblio. Oggi comprendo che è piuttosto una forma di interpretazione, quasi un gesto creativo. Senza questa mediazione, il ricordo rimane crudo, e il passato non diventa mai esperienza.

L’era digitale mi ha insegnato che tutto può restare, ma senza respirare. Ciò che sopravvive nei server non ha il tempo di maturare; è come frutta raccolta acerba e congelata: si conserva, ma non ha sapore. La vera memoria invece è un frutto che ha conosciuto il sole e l'aridità, la pioggia e il diluvio, l’attesa di un momento speciale. Per questo, quando mi accorgo che il mondo corre più veloce di me, non sento soltanto la fatica di rincorrerlo, ma anche la responsabilità di fermarmi e mostrare che esiste un’altra misura del tempo. Gli anziani di un tempo erano necessari perché offrivano questa misura. Non detenevano soltanto i racconti, ma custodivano il ritmo con cui quei racconti andavano accolti. Oggi che quell’autorevolezza sembra appannata, se non svanita, mi chiedo se il compito che resta non sia quello della traduzione: trasformare le proprie esperienze personali non in reliquie, ma in strumenti, in chiavi interpretative per chi viene dopo. Il passato non è un museo, è una grammatica; e una grammatica, se non viene usata, si dimentica.


Forse la mia generazione non deve rimpiangere il mondo perduto, ma accettare di diventare un ponte: tra l’accumulo caotico del presente e il bisogno di senso che, silenziosamente, i giovani continuano a portare con sé. Non sono privi di memoria, sono sommersi. E in questo loro affanno vedo la mia possibilità di offrire non una risposta definitiva, ma un modo diverso di guardare. Così penso che la memoria, oggi, sia soprattutto un atto di cura. Curare significa selezionare, rallentare, tornare a guardare. Significa restituire alle cose il loro peso, alla vita il suo respiro. Se qualcosa potrà davvero restare, non sarà nei dischi rigidi né nelle nuvole digitali, ma nel modo in cui ci siamo trasmessi uno sguardo: lento, paziente, capace di riconoscere un senso dentro il flusso.

E allora la memoria non sarà soltanto un ricordo che resiste al tempo, ma una forma di presenza che lo attraversa. Sarà un’arte silenziosa del vivere, un gesto che permette al passato e al presente di incontrarsi in una trama più ampia. In questo senso, la memoria non appartiene soltanto all’individuo, ma alla comunità: è il respiro comune che impedisce al tempo di diventare pura successione di istanti. Senza memoria non c’è identità, ma senza la capacità di rinnovarla non c’è futuro.

Sono convinto che oggi la vera sfida sia custodire la memoria come si custodisce una fiamma: non lasciandola consumare dal vento, ma nemmeno chiudendola in un vetro che la soffoca. La memoria vive se illumina, se scalda, se continua a trasformarsi. In questo modo diventa non un deposito del passato, ma un orizzonte temporale: il luogo in cui ciò che è stato e ciò che sarà si riconoscono, e trovano un senso.

domenica 17 agosto 2025

Vincere sempre.

Quando si vince sempre, la vittoria smette di essere un esito e rischia di diventare un’identità. È una corazza sottile che brilla, ma non regge agli urti. Così, alla prima sconfitta, non crolla solo un risultato, ma trema l’idea di sé. Chi si crede imbattibile, spesso scambia il limite con l’incapacità, confondendo l’errore con il proprio valore. Molti dimenticano che la sconfitta, però, è un linguaggio. Ci dice dove finiamo noi e dove cominciano le cose che non controlliamo. È lo specchio che restituisce proporzioni: ridimensiona l’ego, illumina le crepe della nostra anima e riapre lo spazio della curiosità. Senza sconfitte non si impara la differenza tra l'identità di risultato (valgo se vinco) e l'identità di percorso (crescendo, valgo comunque). La prima è fragile perché dipende dall’applauso; la seconda è stabile perché si nutre di pratica, continua attenzione e responsabilità. 

Accettare la sconfitta non significa desiderarla, ma riconoscerla come parte del mestiere di vivere. È un invito a riorganizzare le priorità: spostare lo sguardo dal trionfo all’artigianato quotidiano, dal mito dell’impossibile all’umiltà del possibile. Perdere senza perdersi: questo è il vero esercizio. Tornare al lavoro, separare il fatto dall’autogiudizio, domandarsi cosa c’è da capire e chi possiamo diventare proprio grazie a questa crepa. In fondo, il contrario della sconfitta non è la vittoria, ma è l’apprendimento. E chi trasforma la prima caduta in nutrimento dell’anima smette di morire spiritualmente: comincia a nascere di nuovo.