Avvicinandomi ai settant’anni, sento che il mio rapporto con la memoria è diventato più fragile e insieme più prezioso. Non mi riferisco soltanto al ricordo dei fatti, ma a quella sottile alchimia che trasforma un avvenimento in significato. Una volta ero convinto che la memoria fosse soprattutto conservazione: trattenere, proteggere, difendere dall’oblio. Oggi comprendo che è piuttosto una forma di interpretazione, quasi un gesto creativo. Senza questa mediazione, il ricordo rimane crudo, e il passato non diventa mai esperienza.
L’era digitale mi ha insegnato che tutto può restare, ma senza respirare. Ciò che sopravvive nei server non ha il tempo di maturare; è come frutta raccolta acerba e congelata: si conserva, ma non ha sapore. La vera memoria invece è un frutto che ha conosciuto il sole e l'aridità, la pioggia e il diluvio, l’attesa di un momento speciale. Per questo, quando mi accorgo che il mondo corre più veloce di me, non sento soltanto la fatica di rincorrerlo, ma anche la responsabilità di fermarmi e mostrare che esiste un’altra misura del tempo. Gli anziani di un tempo erano necessari perché offrivano questa misura. Non detenevano soltanto i racconti, ma custodivano il ritmo con cui quei racconti andavano accolti. Oggi che quell’autorevolezza sembra appannata, se non svanita, mi chiedo se il compito che resta non sia quello della traduzione: trasformare le proprie esperienze personali non in reliquie, ma in strumenti, in chiavi interpretative per chi viene dopo. Il passato non è un museo, è una grammatica; e una grammatica, se non viene usata, si dimentica.
Forse la mia generazione non deve rimpiangere il mondo perduto, ma accettare di diventare un ponte: tra l’accumulo caotico del presente e il bisogno di senso che, silenziosamente, i giovani continuano a portare con sé. Non sono privi di memoria, sono sommersi. E in questo loro affanno vedo la mia possibilità di offrire non una risposta definitiva, ma un modo diverso di guardare. Così penso che la memoria, oggi, sia soprattutto un atto di cura. Curare significa selezionare, rallentare, tornare a guardare. Significa restituire alle cose il loro peso, alla vita il suo respiro. Se qualcosa potrà davvero restare, non sarà nei dischi rigidi né nelle nuvole digitali, ma nel modo in cui ci siamo trasmessi uno sguardo: lento, paziente, capace di riconoscere un senso dentro il flusso.
E allora la memoria non sarà soltanto un ricordo che resiste al tempo, ma una forma di presenza che lo attraversa. Sarà un’arte silenziosa del vivere, un gesto che permette al passato e al presente di incontrarsi in una trama più ampia. In questo senso, la memoria non appartiene soltanto all’individuo, ma alla comunità: è il respiro comune che impedisce al tempo di diventare pura successione di istanti. Senza memoria non c’è identità, ma senza la capacità di rinnovarla non c’è futuro.
Sono convinto che oggi la vera sfida sia custodire la memoria come si custodisce una fiamma: non lasciandola consumare dal vento, ma nemmeno chiudendola in un vetro che la soffoca. La memoria vive se illumina, se scalda, se continua a trasformarsi. In questo modo diventa non un deposito del passato, ma un orizzonte temporale: il luogo in cui ciò che è stato e ciò che sarà si riconoscono, e trovano un senso.