Il diritto d’autore nasce storicamente come strumento di tutela della creatività. Esso riconosce all’autore il potere di controllare la riproduzione, l’uso e la diffusione delle proprie opere, assicurando al contempo un ritorno economico che renda possibile la vita stessa dell’attività artistica. È difficile immaginare la fioritura di letteratura, musica e arti visive senza un sistema di garanzie che dia agli autori la possibilità di trarre beneficio dal proprio lavoro. Tuttavia, l’attuale configurazione del diritto d’autore solleva questioni profonde quando si estende per decenni dopo la morte dell’autore, trasferendo i diritti economici agli eredi. Questa eredità giuridica, se da un lato può apparire naturale in un contesto patrimoniale, dall’altro si scontra con l’essenza stessa del fatto creativo: l’opera, una volta compiuta, diventa parte di una cultura collettiva.
La tensione tra morale ed economia
La distinzione tra i diritti morali e i diritti economici è cruciale. I diritti morali (come il diritto al riconoscimento della paternità dell’opera o alla tutela della sua integrità) hanno una durata illimitata. Essi rispondono a una necessità etica: l’opera non deve essere decontestualizzata, falsificata o attribuita ad altri, perché ciò lederebbe la memoria e la dignità dell’autore. I diritti economici, invece, rispondono a logiche materiali e commerciali. Il problema nasce quando essi si prolungano oltre la vita dell’autore, spesso fino a 70 anni dopo la morte (e in alcuni ordinamenti ancora di più). A quel punto, non si tratta più di tutelare l’autore, che non esiste più, bensì i suoi eredi o, sempre più spesso, enti e case editrici che hanno acquisito i diritti. La tutela, dunque, smette di essere un riconoscimento della creatività individuale e si trasforma in un monopolio di sfruttamento economico.
Un effetto di censura culturale
Questa estensione temporale eccessiva ha conseguenze concrete sulla diffusione culturale. Restrizione dell’accesso: eseguire una musica, ripubblicare un testo o diffondere un film può diventare oneroso. I costi di noleggio e licenza limitano chi non dispone di risorse economiche, impedendo la libera circolazione del patrimonio culturale. Censura indiretta: non si tratta di censura politica, ma economica. Se un giovane musicista non può permettersi di eseguire un brano di un autore morto da 60 anni, la sua voce artistica è di fatto zittita. Ritardo nell’ingresso nel dominio pubblico: opere che potrebbero diventare patrimonio dell’umanità, liberamente fruibili e reinterpretate, restano confinate dietro una barriera legale. L’umanità deve attendere quasi un secolo perché esse diventino parte di un vero spazio comune.
La sproporzione storica
Quando il diritto d’autore venne codificato tra XVIII e XIX secolo, l’aspettativa di vita era molto più bassa e la protezione oltre la morte dell’autore aveva un senso limitato: garantire un sostegno alla vedova o ai figli minorenni. Oggi, con un’aspettativa di vita molto più lunga e sistemi di benessere consolidati, l’estensione fino a 70 anni "post mortem" appare anacronistica. In molti casi, gli eredi che beneficiano dei diritti non hanno alcun legame diretto con la vita creativa dell’autore, vivendo di rendita su opere che non hanno contribuito a realizzare.

Vanitas - Edwaert Collier
Patrimonio dell’umanità e bene comune
La cultura non è solo frutto dell’individuo, ma anche di un contesto sociale. Un musicista, uno scrittore o un regista si nutre della tradizione che lo precede, della lingua, delle correnti artistiche, delle suggestioni di un tempo storico. Per questo, sostenere che un’opera debba restare vincolata a logiche privatistiche per quasi un secolo dopo la morte dell’autore contraddice la natura stessa del processo creativo: un dialogo costante tra passato e presente. La funzione del diritto d’autore dovrebbe quindi concentrarsi nel garantire un giusto compenso all’autore durante la sua vita e, in misura ragionevole, a coloro che dipendono direttamente da lui. Oltre tale soglia, la cultura deve tornare ad appartenere alla collettività.
Conclusione: verso una riforma necessaria
Il prolungamento dei diritti economici post mortem appare, a uno sguardo critico, come una forma di privatizzazione indebita del bene culturale. È un meccanismo che ostacola la diffusione del sapere e frena la creatività delle nuove generazioni, costrette a operare entro confini artificiali. Un equilibrio più giusto sarebbe quello di limitare i diritti economici al periodo di vita dell’autore e a un arco temporale contenuto dopo la sua morte (ad esempio 10 o 20 anni), sufficiente a proteggere i familiari più prossimi. Dopo di che, le opere dovrebbero entrare nel dominio pubblico, diventando liberamente accessibili.
Solo così la cultura potrà svolgere appieno la sua funzione: non un privilegio di pochi, ma un patrimonio condiviso, fertile e generativo, che appartiene a tutta l’umanità.