Per caso mi imbatto nei consueti tre minuti di un clip promozionale della Digital Concert Hall dei Berliner Philharmoniker alle prese con una sinfonia di Bruckner diretta da Zubin Mehta, durante la fase post-pandemica. Tralascio il commento sull’inascoltabile suono digitale, inevitabilmente compresso per una questione di spazio virtuale, che va bene per orecchie ormai definitivamente compromesse e che non permettono di riconoscere la spazialità di una vera esecuzione dal vivo, molto più di quanto accadeva un tempo con le registrazioni analogiche. Tali sono i modelli del momento, ma si sa che come tali scompariranno, come tutto del resto.
Sorvolo sulla ineccepibile perfezione dei singoli strumentisti, veri e propri virtuosi di prima classe che uniti costituiscono una vera e propria macchina da guerra, una Wehrmacht potentissima in grado di annientare qualsiasi tentativo di imitazione. Una perfezione esecutiva al limite dell’insopportabile, che tende però ad uniformare l’esecuzione del repertorio a causa dell’aggressività per la quale quest’orchestra da molti anni è caratterizzata e che si pone ben lontana dai fascini sonori di un tempo, tutto sommato non troppo lontano. Purtroppo (sic!) la maggior parte delle orchestre oggi suona sempre bene ma più o meno allo stesso modo. Come i BPO, quasi tutte le altre più celebri orchestre “occidentali” hanno questa impronta: dalla LSO alla NYPO, dal Concertgebouw all’ONF e pure i celebri Wiener non ne sono immuni.
La possibilità di viaggiare facilmente e assistere alle masterclass di molti artisti di prim’ordine, di sovente prime parti in grandi compagini, da tempo ha diffuso fra i giovani aspiranti strumentisti una sorta di vademecum tecnico che fa da padrone e che delinea le linee estetiche alle quali le nuove generazioni di strumentisti devono attenersi per essere accettate da un mondo musicale sempre più algido e perfezionista. In questo senso, i concorsi e le audizioni delle orchestre si sono trasformati e, se un tempo era necessario dimostrare la cosiddetta “musicalità”, ovvero un insieme di requisiti umani e tecnici, oggi quelli più richiesti sono la mancanza di emotività, una certa maturità precoce, poco individualismo e soprattutto una sorta di comune cliché esecutivo.
Già, ma dove risiede la perfezione di un’orchestra, a parte la capacità di suonare le note giuste, correttamente intonate e a tempo? Dove risiede l’intesa di un’orchestra, ovvero la sua capacità di vibrare in un certo modo, modificando il fantastico mondo sonoro attraverso il quale ritrovarsi in quella unità speciale che successivamente serve ad accompagnare l’ascoltatore in un particolarissimo viaggio?
La tecnica esecutiva delle orchestre moderne ha raggiunto un livello altissimo e difficilmente si assiste ad una brutta esecuzione. L’interpretazione si è standardizzata, c’è molta agilità, ma è arduo ascoltare un’orchestra che vibri in modo particolare e che si allontani dalla routine, seppure di alto livello. Chi ha avuto le orecchie educate in altri ambiti sonori, sa cosa significa.
Un esempio che i musicisti sensibili conoscono: in ambito tonale, suonare intonato non significa necessariamente essere sempre a posto col diapason, perché esso varia col variare della successione accordale e delle modulazioni. Il valente musicista “musicale” sa che una nota suonata in un accordo, a seconda della sua posizione, oltre che variare d’intonazione assume un colore differente e, di conseguenza, un significato differente. Chiaramente, se sin da giovani si è educati con questo criterio estetico e non solo tecnico, sarà ben difficile non mantenerlo cucito addosso, come una vibrante seconda pelle.
Ovviamente, qui si entra in un ambito più di tipo metafisico che fisico, dove la sensibilità dovrebbe sollecitare la parte più razionale, affinché il risultato non si riveli troppo artificioso. Ciò richiederebbe un ritorno a quella sfera intima e a quello scambio interpersonale fra interprete (il direttore) e i musicisti dell’orchestra, ormai ridotto a un “mordi e fuggi”. Significherebbe più impegno, più profondità, più desiderio di volare alto e al contempo immergersi in quel silenzio necessario che manca a tutti noi. Riprendersi quel tempo personale e musicale indispensabile per allargare il tempo tout-court. Ripensare ai modelli ideali che hanno spinto i musicisti a sposare un mondo fantastico, bellissimo e allo stesso tempo difficile, impegnativo più di un matrimonio e che al di sopra di tutto richiede affettività ed empatia, un connubio assolutamente indispensabile.
Tutto ciò, nonostante i giganteschi problemi economici causati dalla pandemia, deve riguardare le realtà più giovani che dovranno essere in grado di dare la spinta iniziale per la ripresa di quello che in molti già definiscono “il nuovo Rinascimento”. Le celebri realtà ormai consunte, per grandi che siano, non saranno di certo il motore del nuovo, perché questi due anni terribili hanno invecchiato il mondo intero e hanno fatto comprendere che il rinnovamento non potrà perseguire soltanto la linea razionale (tantomeno solo tecnologica). Siamo stati investiti di nuove responsabilità ed i musicisti, come del resto gli artisti in generale, dovranno ripensare seriamente a quanto fatto troppo in fretta, dimenticare le forme esteriori che hanno pesantemente accompagnato gli ultimi decenni e farsi promotori di nuove proposte profonde, in grado di modificare non soltanto l’azione, ma soprattutto ciò che la precede: il pensiero.
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