L'esecutore e il musicista
Ovvero, due modi per intendere (o fraintendere) la Musica e il Direttore d'Orchestra.
Prendo spunto da un'osservazione a proposito del grande Carlo Maria Giulini, fatta da un carissimo e raffinato musicista che ebbi la fortuna di avere come allievo trent'anni fa e che poi incontrai come esecutore in orchestra durante alcuni miei concerti fiorentini. Egli racconta che in occasione di un concerto diretto dal Maestro e al quale partecipò come strumentista, non tutti i suoi colleghi furono altrettanto affascinati e colpiti dalla figura di questo grande signore del podio, devoto alla Musica come pochi e come pochi onesto servitore di essa. La stessa cosa avvenne anni prima, quando il Maestro tornò a dirigere l'orchestra della Scala nell'ormai lontano 1975. Ricordo i commenti di alcuni esecutori di allora che, essendo anche docenti al conservatorio, potevo spesso incontrare per scambiare idee e apprenderne l'esperienza. Già allora compresi che per molti orchestrali il metro comune di valutazione dell'attività di un direttore d'orchestra era solitamente l'intelligibilità del gesto e l'abilità nello scovare errori di esecuzione o imprecisioni d'intonazione. Doti certamente straordinarie che definiscono l'efficienza di un direttore, ma non necessariamente ne definiscono l'altezza interpretativa e l'intelligenza musicale. Per di più, ogni esecutore ha un suo modo particolare d'intendere e valutare l'azione del direttore. Dipende dalla sua cultura musicale, dalla sua sensibilità, dalla sua capacità di entrare in sintonia con l'idea interpretativa, nonché quella di riuscire a superare le difficoltà tecniche che di volta in volta gli si presentano. Ogni orchestrale ha un suo particolare modo di vedere il direttore e di attenderne il risultato dell'impegno. C'è chi è desideroso di essere illuminato, chi predilige la precisione gestuale (a volte per carenze personali) e chi ne percepisce principalmente la simpatia esteriore o la bonarietà dell'operato. Insomma, un variegato modo di percezione dell'uomo e del musicista che differisce notevolmente da persona a persona, anche all'interno della stessa compagine orchestrale.
Proprio con l'orchestra della Scala, intorno ai difficili anni '80, assistetti a due memorabili concerti diretti da due eccellenti direttori d'orchestra: Erich Leinsdorf e Václav Neumann, forse le loro uniche apparizioni a Milano durante tutta la loro vita. Anche in quelle occasioni, i pareri dei singoli orchestrali differirono non poco. Ascoltai asserzioni che variavano da "incapace totale, negato per dirigere", a "eccellente e raro musicista". In entrambi i casi, questi grandi personaggi nell'arco della loro vita avevano per lungo tempo ricoperto il posto di Direttore Musicale presso eccellenti e blasonate orchestre sinfoniche, di gran lunga migliori della compagine milanese di allora: la Boston Symphony e la Philharmonica Ceka, solo per citarne un paio.
Leinsdorf e Neumann erano direttori particolari e molto differenti fra loro. Se a Leinsdorf si riconosceva una capacità analitica e una particolare abilità nel definire il dettaglio della partitura, a costo di apparire didascalico, di Neumann si poteva dire forse l'opposto. Era un eccellente amalgamatore e aveva ereditato il gusto particolare del suono e del fraseggio dai suoi nobili predecessori: Talich, Kubelik, Ančerl. Entrambi erano stati molto fortunati, perché nell'arco della loro vita musicale avevano avuto la fortuna di crescere con orchestre "storiche", ovvero con orchestre che emergevano notoriamente per livello tecnico e musicale. Orchestre depositarie di modelli esecutivi del repertorio, parte integrante del loro DNA musicale tramandato da generazioni.
Quando si ha a che fare con questo tipo di compagini, per un direttore diventa tutto più facile e tutto più difficile al contempo. Non esistendo banalissimi problemi tecnici, sotto il profilo dell'ordinaria amministrazione, il direttore riuscirà a realizzare un ottimo concerto, perché sarà felicemente coadiuvato da musicisti in grado di seguirlo, almeno sul piano grammaticale, indipendentemente dalla coscienza del singolo esecutore, ovvero dalla sua più o meno profonda appartenenza alla Musica e al suo mondo ideale e interiore. Tutto diventa più difficile quando un direttore, carente di idee valide, ha occasione di dirigere un'ottima orchestra o, all'opposto, quando un ottimo direttore e interprete ha idee straordinarie e si trova in presenza di una discreta compagine pressoché priva di problemi tecnici ma alquanto carente nella vera conoscenza del repertorio, generalmente perché eseguito di rado. Intendo dire che, se uno strumentista d'orchestra non ha mai frequentato la Musica per vera passione travolgente, se non si è mai preoccupato di condividerne la sua più profonda essenza interiore, se non si è mai commosso profondamente e si è limitato ad assecondarne gli aspetti più "normali ed evidenti", difficilmente potrà superare indenne gli innumerevoli ostacoli che via via gli si presenteranno, primo di tutti la possibilità di entrare in valida sintonia col direttore d'orchestra e instaurare quel feeling particolare, indispensabile al connubio tecnico-espressivo di entrambi. Ricordo un colloquio con Gianandrea Gavazzeni, che durante una pausa durante le prove di Bohème alla Scala, lamentava la carenza dei giovani orchestrali di allora: "Ah, Serembe! Sono bravissimi, fanno tutte le note! Ma non conoscono Bohème, non la conoscono! E non capiscono le mie intenzioni!".
Per esperienza personale, posso dire che quest'ultima caratteristica si è notevolmente accentuata negli ultimi due decenni da quando, in presenza di un evidente generale progresso tecnico degli esecutori, non è seguito un parallelo innalzamento del livello musicale. Non sto ad analizzare il perché e il per come ciò sia accaduto, mi limito a sottolineare che ciò che fino a poco tempo addietro era una costante del rapporto fra direttore e strumentista d'orchestra, ovvero la condivisa abilità d'intesa in termini strettamente musicali (un fraseggio, un respiro, una particolare comune tensione espressiva) da tempo si sta perdendo. Quando capita di dirigere un passo di una sinfonia di Brahms che richiede un tipico ritardando accompagnato da un allungamento del suono e da un'intensificazione del peso esecutivo e ci si trova a dover spiegare ciò che fino a poco tempo fa era sottinteso, in quel momento un direttore può sentirsi davvero spaesato. In carenza di una vera condivisione di quel mondo interiore che tutto palesa e non necessita di spiegazioni, l'impresa può essere davvero ardua e ogni parola risultare superflua. Tutto diventa davvero impossibile, esattamente come se si dovesse spiegare l'esistenza di Dio.
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