A mio Padre, primo Maestro in assoluto
A mia moglie, unica compagna oltre la Musica
Ai miei grandi Maestri, Bettinelli, Ferrara e Gusella
Trent’anni di tentativi per un’educazione
estetica non ancora conclusa
Questo non è un
trattato sulla direzione d’orchestra né sui direttori d’orchestra. Pretende soltanto di essere una raccolta di considerazioni sulla
Musica e sull’esperienza più che trentennale come docente, pedagogo e educatore
di una disciplina, quella direttoriale, che nei decenni si è rapidamente
trasformata e che dopo aver smesso un abito
da cerimonia indossato per circa un secolo, ora opera in jeans,
ovviamente griffati. Per scelta, non vengono citate esperienze strettamente
personali in campo direttoriale, preferendo qua e là un’aneddotica facilmente
digeribile e soprattutto comprensibile.
Desidero impiegare
tre definizioni di me stesso molto simili fra loro, perché ritengo che ognuna
di esse possegga una particolare sfumatura. A seconda dell’attenzione e
dell’impegno indirizzati a un giovane, negli anni mi sono imposto
inevitabilmente di vestire un abito consono alla persona in questione e al
momento particolare.
Durante il mio
percorso ho modificato notevolmente il mio approccio all’insegnamento e il modo
di rivolgermi a più dei duecento giovani aspiranti direttori incontrati, chi
alle prime armi e chi già in attività. Negli ultimi trent’anni le generazioni
si sono susseguite molto più rapidamente che nei decenni precedenti. L’ingresso
in ogni casa di internet ha trasformato profondamente la sensibilità di noi
tutti modificando il nostro modo di pensare e operare e costringendoci a
reazioni pressoché in tempo reale. Siamo tutti costretti ormai a tempistiche da
primato e abbiamo accorciato i nostri tempi di meditazione e maturazione.
Sembra quasi che la riflessione sia diventata un lusso per pochi fortunati che
posseggono il tempo a cui dedicarsi. Anche il gusto musicale è mutato
rapidamente, talvolta a causa di modelli imposti dal mondo musicale ufficiale e
dai mass-media, ma ancor più a causa del mutato stile di vita di noi tutti:
mordi e fuggi.
Talvolta il mio
scritto potrà apparire pungente o dogmatico, a volte fastidioso, ma quando si
discorre di certi argomenti immateriali come la Musica e il mondo ideale a essa
connesso, è inevitabile che il discorso possa prendere una piega scomoda e
talvolta anche non condivisibile. E’ come quando si instaura una conversazione
sulla politica o sulla religione: certe volte è meglio non discuterne ma
soltanto ascoltare per poi trarne le proprie conclusioni.
Musica, amica e nemica.
"La bellezza sola rende felice tutto il mondo, e
ogni essere dimentica i suoi limiti fintanto che subisce il suo fascino"
(Dalla lettera XXVII dell' Educazione Estetica dell'uomo
di Friederich Schiller)
E’ risaputo che una
delle primissime sensazioni avvertite da un bambino appena nato, seppur
inconscia, è la percezione di un suono o di un rumore. Essa può condizionarne per
sempre il suo sviluppo, in quanto il cervello recepisce sin da subito qualsiasi
sollecitazione. E’ indubbio che una piacevole e naturale sensazione uditiva può
segnare l’individuo sin dai primi giorni di vita. Già quando è nel grembo
materno recepisce una miriade di sollecitazioni attraverso i sensi propri della
madre, tant’è vero che tutte le
esperienze vissute durante la gravidanza possono condizionare la salute
psico-fisica del nascituro, siano esse di natura psicologica, fisica o
bio-chimica. I primissimi mesi sono delicatissimi, perché già con l’armonia e
le attenzioni suscitate in ambito familiare egli inizierà a sviluppare la
propria capacità sensoriale e soprattutto a formarsi una personale percezione
tattile, olfattiva, un gusto per i sapori, i colori e i suoni.
Il percorso di
accrescimento e affinamento verso il mondo sonoro, avvenga esso per mezzo di un
qualsiasi strumento musicale o anche soltanto grazie alla propria voce, se indirizzato
precocemente può sviluppare quella peculiare sensibilità d’orecchio necessaria
al futuro musicista e alleggerirlo delle difficoltà tecniche e di comprensione
di un linguaggio particolarissimo, perché all’inizio saranno sviluppate come
gioco.
Questa
caratteristica non vale soltanto in ambito musicale, ma anche in altri campi.
Come per l’apprendimento della matematica (anch’esso linguaggio complesso) la
capacità di astrazione, comprensione e assimilazione delle basi fondamentali di
un linguaggio può essere rapido e facile oppure lento e faticoso. A parità di doti
e sensibilità, due individui che iniziano simili studi in età differenti si
ritroveranno a percorrere strade differenti, per il semplice fatto che dopo una
certa età il declino cerebrale è già iniziato e certe possibilità di
assimilazione sono inevitabilmente rallentate.
Si conoscono
tantissimi casi, passati e presenti, di bimbi precocissimi in molteplici campi.
C’è quello che a tre anni fa calcoli matematici complessi o quello che, essendo
cresciuto con le storie ed i libri, impara in seguito a leggere e scrivere più
facilmente. È dunque evidente che l’apprendimento della lettura di un qualsiasi
simbolo inizia molto prima dell’ingresso in una scuola. I bambini stimolati
molto presto a livello del linguaggio hanno certamente alcune potenziali
caratteristiche tali da trasformarli prestissimo in “outsider”.
In campo
strettamente musicale, se certe peculiarità possono emergere precocemente
grazie a queste attenzioni verso lo sviluppo del bambino, il pericolo è che
anche dopo anni esse rimangano imprigionate in quella fase ludica primaria che,
anziché maturare armoniosamente assieme all’individuo, lo costringe in una
sorta di “limbo” dal quale egli non riesce più a evadere per mancanza di
ulteriori stimoli naturali, sensoriali, intellettuali e sociali. Ed ecco allora
che l’ “enfant prodige” che in poco tempo aveva impressionato con le sue
capacità straordinarie, inizia una sorta di stasi a volte lunghissima, a volte inarrestabile
o perenne.
Chi è addentro
l’ambito musicale avrà certamente conosciuto artisti più o meno giovani con
spiccate caratteristiche di eccezionale abilità tecnica, memoria prodigiosa,
repertorio sconfinato. In quasi tutte le discipline musicali possiamo
incontrare personaggi che il senso comune ci porta a definire “straordinari”
grazie alle loro prestazioni tutt’altro che comuni e impraticabili dalla
maggior parte degli ottimi musicisti in circolazione. Di sovente, ognuno di
questi abili artisti ha sviluppato una personale tecnica di memorizzazione, una
“mnemotecnica” già conosciuta dagli antichi. Si tratta di un tecnica adoperata
per memorizzare rapidamente e più facilmente concetti o entità difficili da
ricordare. Essa sfrutta la naturale capacità dell'uomo di ricordare molteplici
informazioni nel momento in cui sono trasformate in immagini o storie,
consentendo di aumentare notevolmente la capacità della memoria.
Molti artisti si
avvalgono di questa tecnica per poter disinvoltamente immagazzinare un’enorme
quantità di nozioni e poter così avvantaggiarsene nello studio e nella
memorizzazione delle composizioni musicali. Soltanto per fare un nome da tutti
conosciuto, Dimitri Mitropoulos, noto per la prodigiosa memoria musicale: egli
era solito farsi consegnare prima
dell’inizio delle prove l’elenco dei professori d’orchestra, al fine di poterli
interpellare singolarmente durante le prove. Si racconta che un giorno un
musicista non fosse presente per un’improvvisa indisposizione e che il suo
sostituto, una volta interpellato, non rispondendo causò un certo disagio al
Maestro. Sfortunatamente, queste abilità non sono alla portata di tutti.
Richiedono quella capacità d’astrazione difficile da sviluppare se non si è
iniziato sin da giovani. Come il gioco degli Scacchi, che richiede intuizione
strategica e abilità tattica, anche il gioco della memoria si basa su
intuizioni, previsioni e immaginazione. In età adulta diventa tutto più
complicato e il “puzzle”, facile o complesso che sia, arduo da ricomporre.
I musicisti più
fortunati perché in possesso di questi requisiti, possono però incontrare lacune
nella memorizzazione musicale pura. Il pensiero armonico e contrappuntistico
alla base della composizione musicale, che dovrebbe essere il principale
supporto alla capacità d’apprendimento, è spessissimo sostituito da una memoria
di tipo “associativo” e da una di tipo “muscolare”. Quest’ultima è spesso
necessaria per rendere indipendente il pensiero dall’attività puramente fisica
dell’esecutore. Brani di notevole complessità tecnica possono essere eseguiti
disinvoltamente grazie all’automaticità del movimento che altrimenti potrebbe
essere compromessa per la preoccupazione del pensiero musicale stesso. Una
volta superate queste difficoltà, l’esecutore ha ottime opportunità per poter
navigare serenamente nelle acque agitatissime della professione, dove però gli
stress emotivi sono ricorrenti e a volte fatali, capaci di compromettere
all’improvviso e definitivamente fulgide carriere già precocemente avviate. La
capacità di mantenere un equilibrio psico-fisico è alla base di molte attività
umane e quella artistica del musicista, sempre sollecitato perché sotto stretta
osservazione, è fra le più delicate. I motivi per cui anche dopo anni di
professione un artista può improvvisamente interrompere l’attività sono
molteplici. Alcuni possono derivare da inattesi e sfortunati incidenti di
percorso oppure altri, sepolti da tempo e radicati nei meandri più reconditi
della sfera emotiva, da una mancata realizzazione della persona, prima ancora
che del musicista. L‘educazione artistica ricevuta, e qui mi riferisco alla
globalità dell’esperienza trascorsa durante gli anni di formazione e
apprendimento, è determinante per lo sviluppo armonioso di un giovane. Molti
aspetti relativi alla formazione dell’individuo sono spessissimo trascurati da chi ha nelle proprie mani il
futuro di un giovane musicista. In modo più o meno volontario, la sfera che
riguarda lo sviluppo della persona “al di là delle note” sembra che non
riguardi il docente; né più né meno di un padre che si limiti a portare a casa
lo stipendio e deleghi in toto ad altri l’educazione del proprio figlio.
Questa lunga e varia
premessa mi serve come punto d’arrivo e come partenza per un percorso a
ritroso. Ovviamente le mie considerazioni derivano da una personale esperienza
trentennale e dall’osservazione di diverse generazioni di musicisti: allievi,
ex-allievi diventati poi colleghi, artisti conosciuti personalmente e altri
osservati più o meno da vicino. Le confidenze ricevute in più di un’occasione
dai giovani e l’incontro con musicisti che a loro volta hanno attraversato le
pesanti problematiche derivate da anni di fatica psico-fisica, prima durante
l’apprendimento e poi dall’ingresso nel mondo musicale “ufficiale”, mi sono
servite per una dissertazione intorno a quell’ “Educazione Estetica”
indispensabile per intraprendere un cammino perennemente in salita e faticoso
sotto molteplici aspetti.
Personalmente ho
avuto la fortuna di incontrare ottimi insegnanti, alcuni di loro anche grandi
Maestri. Una sottile differenza che soltanto negli anni ho potuto comprendere a
fondo e che mi è stata d’aiuto, prima per comprendere me stesso e il mio
percorso, e poi per affinare un certo intuito indispensabile nell’insegnamento
di una disciplina musicale, quella della Direzione d’Orchestra, che può essere
esemplificata in due minuti oppure
richiedere intensità, sforzo, pazienza, determinazione e ovviamente passione
infinita.
La Sinfonia “Pastorale” è in Fa Maggiore?
“Maestro, ma la sesta di Beethoven è in due o in uno?
Devo togliere la corona o tiro dritto? E il metronomo? Sa, tizio fa così e caio
cosà. Al corso estivo il maestro ci diceva che in quel punto si deve dirigere
in questo modo perché qui accade questo e perché là accade quest’altro”.
Ecco le
strazianti domande che da trent’anni mi sento rivolgere in occasione dello
studio di una partitura. Sia essa di Beethoven o di Stravinsky, le domande son
sempre le medesime. Per carità, del tutto lecite dal punto di vista della
sintassi e dell’ordinaria amministrazione, ma esse fanno palesemente comprendere
il tipo di educazione musicale ricevuta in anni di studio e frequentemente
denotano la pressoché assoluta carenza di legami con quel mondo interiore,
particolarissimo e assoluto senza il quale è impossibile oltrepassare il
confine della grammatica musicale. Se queste lecite domande possono essere
evase in breve grazie ad ancor più semplici risposte, le risposte sostitutive
alle “non domande” sono quelle più faticose e dolorose da dare. Sfortunatamente
capita di discorrere in modo genuino e ritrovarsi di fronte a interlocutori
completamente spiazzati dalla semplicità e dall’ovvietà delle asserzioni. In
quel momento si avverte il medesimo disagio che tutti abbiamo provato, almeno
una volta nella vita, quando ci siamo resi conto della nostra inconsapevolezza
di fronte all’ineluttabilità degli eventi. Talvolta mi sono sentito a disagio
nel rispondere a domande ingenue, se non totalmente inutili, e ricevere in
cambio stati di stupore del tipo “Ah, ma non sapevo che prima o poi tutti
passiamo a miglior vita!”…
Negli anni ’80
negli USA fu condotta un’indagine nelle scuole primarie delle grandi metropoli
per conoscere il rapporto esistente fra i fanciulli e il mondo a loro
conosciuto, soprattutto per analizzare la loro effettiva comprensione del mondo
esterno. Fra le molte rivolte, alla domanda “Avete mai visto un pollo?” la
maggioranza rispose più o meno in questo modo: “Sì, ogni sabato con mamma al
supermarket, sfilettato e impacchettato sugli scaffali”. Ecco, il rapporto di
questi bambini col mondo esterno è simile a quello di molti giovani musicisti
in rapporto al mondo sonoro. Proviamo a chiedere: avete mai incontrato
Beethoven?
Si racconta che
durante un colloquio per l’ammissione a un corso col grande Sergiu Celibidache,
alla domanda del Maestro: “Secondo lei, dov’è la Quinta Sinfonia di Beethoven?”
un candidato avesse risposto in modo più o meno scherzoso che si trovava sullo
scaffale in alto a destra della libreria di casa. A parte la risposta, forse eccessivamente
fuori luogo considerata la situazione formale, la domanda del Maestro, che
implicitamente richiedeva una risposta “filosofica”, aveva e ha tutt’ora un suo
significato importante.
Già, dov’è la
Musica? Possiamo tranquillamente asserire che la Gioconda di Leonardo è esposta
al Louvre o che La Pietà di Michelangelo è conservata nella basilica di San
Pietro, ma difficilmente possiamo collocare nel tempo e nello spazio un
qualsiasi brano musicale, per il semplice fatto che esso “prende forma e vita”
soltanto nel momento in cui viene eseguito. La nostra memoria uditiva può
ricreare vagamente la composizione, ma non può altro che definirla in un
concetto di forma astratta. Anche il più abile musicista, se non coadiuvato da
uno o più strumenti o almeno dalla propria voce, è impossibilitato in quella
ri-creazione dell’opera d’arte, seppur di tipo ideale, che invece è possibile per
l’arte figurativa grazie al nostro senso visivo. Anche la sola lettura mnemonica
di una partitura da parte di un eccellente e dotato direttore d’orchestra, non
può minimamente ricreare la composizione. Nel migliore dei casi sarà una sorta
di “deja vu” o meglio, “deja ecouté”, comunque lontano dall’effetto di una vera
orchestra che vive quel particolare e unico momento.
Sfortunatamente
il musicista esecutore è soltanto un tramite fra l’opera d’arte e
l’ascoltatore. I più disagiati sono i cantanti perché il risultato del loro
sforzo di apprendimento e il risultato musicale raggiunto può essere controllato
in buona parte soltanto grazie all’ascolto endosseo. Un violinista, un pianista
o un direttore d’orchestra riescono invece a controllare meglio la loro opera
di ri-creazione grazie all’ascolto diretto che sarà comunque percepito in modo
differente da ogni ascoltatore. Infatti, come per la sensibilità verso i colori
che fa risaltare un rosso o un giallo in modo più evidente, anche per i suoni i
sensi umani reagiscono in modo diseguale. C’è chi ha una spiccata sensibilità
per le frequenze acute e chi per quelle medio-basse, chi percepisce
perfettamente tutte le frequenze e chi, al di sotto una soglia uditiva, è quasi
sordo. Ovviamente questi sono casi limite, ma che sottolineano quella diversità
di reazione alla varietà degli stimoli visivi o sonori che contraddistingue ognuno
di noi.
La differente
percezione e conseguente intuizione di un brano musicale è legata a diversi
fattori. Si è accennato nell’ introduzione all’importanza dei più svariati
stimoli durante il nostro accrescimento. Anche quei comportamenti che a livello
sociale sono considerati “negativi” costituiscono parte integrante nella formazione
dell’individuo e del futuro artista. Qui non scivolerò certamente in
considerazioni riferite alla “moralità della persona” comunemente intesa perché
devierei inevitabilmente su questioni concernenti esclusivamente la sfera
intima e il proprio modus vivendi. Non si contano i casi di artisti nelle più
svariate discipline che nel loro privato
erano lontani anni luce dalla grandezza delle loro opere.
Invece, è
importante sottolineare quanto la Musica non possa vivere autonomamente se non è alimentata da una svariata serie di sensazioni e stati d’animo: intuizioni, desideri,
immaginazione, stupore, innocenza, aggressività, consapevolezza, estasi.
Potremmo andare avanti all’infinito, ma la Musica, contrariamente a quanto si
possa credere e per come avviene nelle altre arti, è riposta soltanto in queste
inclinazioni indispensabili a sublimare la tecnica conquistata in anni di
sacrifici, sia essa compositiva o esecutiva. Senza questa sublimazione
sopravvive come arida grammatica, tutt’al più come un articolato artificio
cerebrale, un esclusivo esercizio intellettuale. Per questo motivo la “Sinfonia
Pastorale” può essere soltanto in Fa maggiore, tonalità di suoni e colori che
racchiude al suo interno sensazioni e emozioni particolari. Non è una sinfonia
“eroica”, per cui Beethoven non avrebbe mai e poi mai potuto scriverla in Mi
bemolle Maggiore.
Di che colore è la “Sinfonia Pastorale”? Che suono ha
“Guernica”? Che odore ha “Uomini e Topi”?
La tonalità di
una composizione musicale equivale alla tinta fondamentale di un’opera
figurativa o al ritmo di un brano letterario. In ognuna di queste opere
traspaiono colori, suoni, profumi, sapori. Un’opera di Proust ha tutte queste particolarità,
esattamente come la Sinfonia Pastorale di Beethoven. Un dipinto come Guernica
di Picasso è rumorosissimo, con i suoi urli disperati e laceranti e nel romanzo
di Steinbeck Uomini e Topi è impossibile non percepire l’esalazione amara della
morte. Queste comuni e a volte meno evidenti caratteristiche dell’opera d’arte,
in quanto esercizio trascendente e non razionale, in Musica rappresentano
quella parte nascosta e più difficile da rivelare durante un’interpretazione.
Anche la più abile e riuscitissima delle esecuzioni da parte di un virtuoso
dello strumento o della bacchetta può lasciare a bocca asciutta per mancanza di
profondità e per carenza di spessore interpretativo. Quest’ultimo può
sussistere anche in carenza di requisiti “virtuosistici” in quanto si basa su
presupposti meno tangibili rispetto alla concretizzazione fisica dei suoni.
Molti interpreti passati e odierni, racchiudono quelle unicità tali da renderli
differenti da altri, grazie all’ampiezza di un pensiero musicale non
imprigionato in un rigido ambito tecnico. Possiamo affermare che gli interpreti
più straordinari sono quelli che riescono a evocare le sensazioni più intime
delle composizioni e unirle sensibilmente a quelle personali esperienze alle
quali accennavo precedentemente. Il mezzo attraverso il quale il musicista
riesce ad arrivare al più elevato risultato, è ovviamente imperscrutabile e
tale è bene che rimanga. Sarebbe come conoscere già in anticipo il trucco di un
abile illusionista...
La complessità
dell’interpretazione non è detto che si trovi in rapporto stretto alla complessità
della composizione. Brani per “bacchette virtuosistiche” come Sagra di
Primavera di Stravinsky o Tanz Suite di Bartok, nella loro oggettività della struttura
musicale alleggeriscono l’esecutore di quel carico interpretativo “ricco di
storia” legato ad esempio al periodo classico o romantico. In questo caso
subentra un differente impegno tecnico da parte del direttore che dovrà invece essere
in grado di avvicinarsi a simili complesse costruzioni nel modo più semplice e
razionale per evitare le infinite difficoltà esecutive temute dagli esecutori,
ad iniziare dalla propria imperturbabilità e da un razionale autocontrollo
indispensabili alla conduzione di simili partiture. Come per i pianisti, il
mondo del virtuosismo in quanto padronanza assoluta di tecnica “fisiologica” è
riservato a pochi. I più grandi interpreti delle più svariate discipline
musicali, ma dotati di saggia autocritica perché oggettivamente limitati, si
sono sempre ben guardati di avvicinarsi a composizioni impossibili per la loro limitata
abilità puramente tecnica.
Se per certe
composizioni esiste un’ evidente difficoltà d’approccio a causa delle
difficoltà tecniche, per altre decisamente più abbordabili sul piano esecutivo esistono
complessità interpretative che non tutti i musicisti riescono a focalizzare e risolvere. Non per
una mancanza di “background” tecnico, bensì molto spesso per quella mancanza di
“feeling” con quel particolare autore o periodo storico. L’interpretazione di
una sinfonia di Brahms, non solo presuppone la conoscenza dello stile e la
padronanza della partitura in quanto tale, ma soprattutto quel tipo particolare
di respiro, di afflato indispensabili al compimento della ri-creazione
dell’opera. Il raggiungimento del “climax” in quel particolare punto della
composizione è compiuto quando l’interprete riesce a unire la visione
“strutturale” di essa alla propria “Weltanschauung”, termine tedesco non
traducibile e che esprime un concetto di pura
astrazione definibile semplicemente, anche se non appieno, come
"visione del mondo".
Estetica e Conoscenza
“La più bella sensazione è data dal lato misterioso della
vita. È il sentimento intenso che sempre si trova nella culla dell’arte e della
scienza pura. Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per
così dire morto; i suoi occhi sono spenti … Sapere che esiste qualcosa di
impenetrabile, conoscere le manifestazioni dell’intelletto più profondo e della
bellezza più luminosa, che sono accessibili alla nostra ragione solo nelle
forme più primitive, questa conoscenza e questo sentimento, ecco, in ciò
consiste la vera devozione. In questo senso, e soltanto in questo senso, io
sono fra gli uomini più profondamente religiosi.”
Così si esprimeva
Albert Einstein in quella mirabile raccolta di riflessioni scritte dal 1934
fino al 1955, anno della morte, dal titolo “Come io vedo il mondo”.
Prendo spunto da
queste straordinarie pagine che sin da fanciullo ebbi la fortuna di leggere
assieme a mio padre in quegli indimenticabili momenti che restano impressi
nella memoria come se fossero scolpiti sulla pietra. Conservo ancora da qualche
parte quel volumetto color carta da zucchero che egli custodiva come un
preziosissimo cimelio. Le considerazioni di Einstein sul lato misterioso della
nostra vita, sull’indispensabilità di certe sensazioni dell’animo umano, sin da
subito hanno segnato profondamente il mio modo d’essere e ovviamente il mio
atteggiamento di fronte alla Musica in quanto “unicità”.
Quando da
giovanissimo iniziai per interesse personale a occuparmi innocentemente di
letture filosofiche, mi colpì molto un pensiero del grande matematico e
filosofo Leibniz: “Ascoltare la musica
equivale alla nascosta attività aritmetica di un animo che non è consapevole di
effettuare un calcolo, ma che ne percepisce il risultato in termini di
piacevolezza". Per Leibniz la musica possiede una salda struttura
matematica, ma non contrastante col fatto che essa si rivolge anzitutto ai
sensi, rivelandosi unicamente nel momento stesso in cui viene percepita
sensibilmente. Essa si manifesta in larga misura in percezioni confuse e quasi
inavvertite che sfuggono alle percezioni più chiare. Questo concetto
fondamentale, necessario per comprendere e condividere quello spirito che dovrebbe
animare l’esecuzione musicale, manifesta quella specificità di “sublimazione” del
procedimento tecnico accennato precedentemente, essenziale alla riuscita del
risultato artistico in senso di perfezione. E’ un concetto acuto e al contempo semplice
da comprendere e condividere anche per una mente giovanissima, ma presuppone
quell’apertura al “bello” e all’ “estetico” che appartiene in buona parte alla
sfera della propria sensibilità e interiorità, due caratteristiche che possono
e devono essere ininterrottamente perseguite e affinate.
Quando si parla
di estetica è come parlare di religione. E’necessario chiarire su quali
concetti ci si esprime. Nel caso della religione, tutte le volte che mi è
sfortunatamente capitato di parlarne, dopo un po’ ho dovuto mio malgrado
chiedere al mio interlocutore se si stava conversando di filosofia, teologia,
teoretica o fede. Anche nel caso dell’estetica, dipende da dove si parte. Se
iniziamo dall’argomento filosofico, allora siamo già fermi. Pensiamo alla
dottrina kantiana del bello. Il suo fraintendimento a opera di Schopenhauer e
di Nietzsche non ha ancora cessato di produrre altri equivoci in ambito
filosofico. Kant si esprimeva semplicemente asserendo che "bello" è ciò che piace soltanto in
modo puro, "senza interesse". Per Schopenhauer si identifica nella
sospensione della volontà e in Nietzsche, secondo un modello contrapposto,
"bello" diviene “ebbrezza”, ossia esattamente il contrario di ogni
"piacere disinteressato". In Kant l'espressione "piacere
disinteressato", non ha alcuna intenzione
d’indicare un'indifferenza verso l'ente in questione, ma al contrario, ne è una
rivalutazione. Il termine "interesse" ha un significato negativo perché
indica ciò che può distoglierci dall'individuazione del bello in quanto tale,
per cui solo dopo aver rimosso ogni "interesse", possiamo cogliere
l'oggetto al suo particolare livello, nella sua dignità e quindi nella sua
bellezza.
L’insegnamento
della Musica, o meglio, la trasmissione di un pensiero estetico da parte dell’educatore,
può iniziare da subito. Dovrebbe avere inizio con la “conoscenza” di quei
principi-valori assoluti che ne fanno parte integrante nella sua intangibilità
e sacralità. Si dovrebbe avviare con quel processo di umiltà, rispetto e
sottomissione ad un mondo, appunto intangibile, che può vivere soltanto ad
opera dell’esecutore, ma che può anche morire a causa di esso e della sua
insipienza. Pensieri d’eccellenza come quelli sopracitati possono diventare
parte integrante dell’insegnamento musicale sin dagli inizi, ma è
indispensabile che essi trovino un terreno fertile, non inquinato e soprattutto
un buon seminatore.
L’ostacolo più
pericoloso per un giovane che si appresta ad assimilare i rudimenti dell’arte
musicale è incorrere in quell’aspetto “facile” e “ludico” che ovviamente tutto
nasconde e tutto palesa. Riuscire a trasmettere quella capacità di giudizio
estetico utile alla comprensione della propria opera da parte di un abile
docente non è cosa facile e nemmeno
scontata. Richiede un’attenzione particolare all’individuo nella sua
totalità e ovviamente una riposta reciproca fiducia. Quest’ultima è forse la
più difficile da ottenere perché, come la fede, si presuppone che dovrebbe
essere cieca e pura. Nel momento in cui essa apparisse compromessa anche
semplicemente a causa di un’incomprensione, significa che il dubbio scaturito
nell’allievo, di per sé necessario alla sua crescita, dovrà essere sì compreso
con grande umiltà e intelligenza dal docente, ma risolto con abilità e
limpidezza di pensiero dall'allievo. I condizionamenti ricevuti da
un’educazione “parallela” impartita in famiglia o a scuola sono spessissimo il
principale intralcio al delicato compito del maestro, l’unico vero “sacerdote”
in grado di trasmettere quella “religiosità” alla quale Einstein genuinamente si
riferiva in rapporto alla ricerca della “bellezza più luminosa”. La volontà e
l’attitudine al discernimento, la capacità continua di distinguere fra la
“bellezza pura” e libera da ogni interesse può aversi, appunto come diceva
Kant, anche soltanto in un semplice giuoco di forme, in cui si attui l'armonia
del pensiero col senso, anche senza alcun significato, come accade ad esempio
in natura. Ammirando un panorama mozzafiato o l’ornamento di un fiore possiamo
esprimerci soltanto in termini particolari quali: sublime, delizioso,
meraviglioso, straordinario, sorprendente, divino. Difficilmente potremmo
esprimerci con parole del tipo: interessante, singolare, notevole, come se
fossimo ad una mostra di pittura contemporanea. Quando si è di fronte
all’universale, ogni parola è vana e il silenzio è oro.
La prima ricerca della perfezione
"Considerate la vostra semenza: fatti non foste a
viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza"
La celebre
terzina del canto ventiseiesimo dell’ Inferno è un condensato della multiforme
personalità di Dante, per il quale la vera conoscenza era il punto di partenza
per la valutazione di una persona. L'ansia di ricerca spinta al punto più
estremo come affermazione di grandezza, in Dante diviene il peccato che
condanna il semidio per aver ignorato i limiti dettati alla natura umana. Essa
ci è connaturata e come tale pensiamo sia la parte più scontata di noi tutti; forse,
per questo motivo, è al contempo la più
difficile da scoprire, a iniziare da noi stessi e, a seguire, dal prossimo. La
storia dell’umanità ci insegna che il cammino verso l’ideale “perfezione”, tentativo
anelato anche dagli uomini dalla più alta levatura morale, riserva ostacoli,
tranelli e fraintendimenti di ogni sorta. Sin dalla nascita, il nostro
quotidiano apprendimento è condizionato dalla trasformazione degli avvenimenti
e dalla nostra più o meno adeguata e limitata volontà di modificarli a nostro
beneficio. Ne subiamo traumaticamente le conseguenze quando pensiamo che una
“regola” sia di per sé sufficiente per aggiustare tutto e subiamo i più
devastanti effetti quando realizziamo di averne frainteso gli ammonimenti.
Quando un giovane
musicista, dopo i primi rudimenti necessari al suo “svezzamento” si appresta a compiere i primi passi nella
figura di interprete, anche a soli sei o sette anni nelle sue prime esibizioni
di fronte a mamma e papà, è oggetto di attenzioni particolari che lo pongono
suo malgrado su un piano di adorazione. Un po’ per il normale affetto dei
genitori, un po’ per la sua abilità nel realizzare cose non comuni che a occhi
e orecchie normali lo fanno apparire come prodigio. E’ il momento più delicato
per il bambino perché il minimo errore di valutazione da parte del maestro può
rivelarsi fatale, soprattutto nel caso di quei piccoli fallimenti necessari
alla crescita e che possono essere ingigantiti a dismisura, peraltro senza
averne motivazione.
Non si contano i
casi di fanciulli normalmente dotati che potrebbero continuare serenamente il
percorso musicale, ma che improvvisamente abbandonano lo studio, apparentemente
senza alcuna motivazione. Capita che la rinuncia si manifesti per una
subentrata mancanza di compartecipazione emotiva col maestro, figura evidentemente
in contrasto con quella genitoriale. Nel suo delicato compito di trasmettere al
discepolo una materia fisicamente tangibile e al contempo evanescente, ha la
responsabilità di “radiografarne” la figura al fine di poter mirare le sue
particolari “cure” al meglio. Non si tratta di essere guru o esperti pedagoghi,
bensì di possedere quella particolare e indispensabile attitudine che è la
capacità di persuasione finalizzata ad alleviare difficoltà, incertezze e
rinunce premature. In vita mia ho incontrato maestri incapaci di esplicare su
questioni tecniche, ma meravigliosi nel dipanare dubbi esistenziali soltanto
con due parole mirate, fossero esse su questioni musicali, comportamentali o
quant’altro. Il compito dei genitori è altrettanto delicato perché presuppone
una larghezza di vedute e una capacità di giudizio scevra da prevenzioni. In quasi trentacinque anni d’insegnamento mi
sono imbattuto in genitori che erano persone semplici e inesperte, ma con un
gran buon senso e un’intelligenza particolarissima verso l’educazione dei figli
musicisti. Questi ultimi si sono sviluppati armoniosamente, al contrario di
altri più sfortunati precocemente spinti verso il baratro dell’esibizionismo a
causa delle grossolane ambizioni dei genitori. Nei casi migliori essi sono prematuramente
scomparsi dalla circolazione, perlomeno evitando futuri danni a sé stessi e
alla Musica, ma molti altri sono ancora affannosamente in attività,
sopravvivendo alle mille difficoltà di una professione che facilmente può
distruggere prima l’uomo e poi il musicista o, all’opposto, migliorarlo e
elevarlo verso i più alti vertici di perfezione, non solo tecnica.
Non appena il
giovane musicista è in grado di correre da solo, una volta svincolatosi dalle
sicurezze ricevute in ambito scolastico, inizia il difficile cammino verso la
professione. Impiego questa parola, ma
non mi è mai piaciuta, in quanto l’artista vive ogni secondo della
propria vita in simbiosi con il suo mondo ideale che corrisponde quasi
totalmente a quello concreto. Altri esercizi umani possono essere tranquillamente
separati dalla vita reale, in quanto non presuppongono impegni di tipo emotivo
o esistenziale. In Musica, invece, è tutto differente e a seconda del percorso
intrapreso la propria vita può facilmente assumere l’aspetto di un meraviglioso
sogno o di un perenne incubo.
Le genuine
aspirazioni giovanili, possiamo dire le illusioni di un mondo idilliaco dove
vige esclusivamente la bellezza dell’arte e un suo riconoscimento ideale a
opera dei musicisti e dei suoi cultori, scemano precocemente e capita che siano
sostituite da insoddisfazioni, sofferenze, fallimenti e purtroppo nessuno è
immune da questi incerti. L’unico modo per sopravvivere a tutti gli imprevisti
che costellano la vita artistica è mantenere un equilibrato stile di vita
psico-fisico, iniziando dal conoscere a fondo sé stessi e riuscire nel tempo a
evolvere grazie alle esperienze vissute operando una continua auto-analisi.
Prima di rivolgersi allo specialista è forse bene rivolgersi a noi stessi, ovvero
al medico più vicino a noi e meglio conosciuto. I comportamenti individuali,
dettati dalla propria indole e dagli eventi remoti che hanno segnato il proprio
carattere e sviluppato la personalità, necessitano di una continua verifica e
di un continuo progresso. E’ un percorso in salita perché richiede il massimo
equilibrio da mantenere di frequente in condizioni poco ideali: stress
continuo, affaticamento psicologico, superlavoro, viaggi continui.
Non si pensi che
questa situazione riguardi esclusivamente gli artisti in grado di esercitare l’attività
in modo permanente grazie alla propria
bravura e a circostanze fortunate, si tratti di un solista o di un buon
professore d’orchestra. Riguarda anche chi, per le più svariate motivazioni e
scelte personali, opera in modo discontinuo. Abbiamo conosciuto grandi artisti che si esibivano pubblicamente
col contagocce; due nomi per tutti: il pianista Arturo Benedetti Michelangeli e
il direttore d’orchestra Carlos Kleiber. Ciascuno con le sue motivazioni, per
scelta e ove possibile, operava soltanto in condizioni ideali. Per Kleiber le
condizioni ideali erano essenzialmente legate al clima di serenità nel quale
doveva operare. Un minimo inconveniente, magari svincolato dall’ambito
strettamente professionale, era capace di fargli annullare un concerto o una
recita anche all’ultimo istante. La sua ipersensibilità era qualcosa di
patologico, molto vicina alla nevrosi e frequentemente devastante. D'altronde,
per un musicista che passava notti insonni per decidere se l’ottavino doveva
suonare staccato o portato, è più che comprensibile. Nel caso di Benedetti
Michelangeli, la motivazione per cui annullasse anche all'ultimo i concerti non
era un semplice capriccio, ma una totale
dedizione alla Musica: suonava solo ciò che era consapevole di conoscere alla
perfezione e quando era sicuro di poter donare al pubblico il meglio di sé.
Questi sono casi
limite, ma ci fanno comprendere la differenza sostanziale fra il “suonare” o il
“dirigere” e il “far Musica”. Sono modelli eccezionali, non copiabili ma
soltanto anelabili nella loro più elitaria essenza. Esempi straordinari di
devozione alla Musica che devono servire da faro per illuminare una strada irta
di ostacoli e angosce. La comprensione precoce di queste differenze può
certamente coadiuvare il giovane musicista, anche se già in carriera, nel passaggio dalla sfera
disimpegnata dell’azione a quella più profonda e positiva di una parallela manifestazione
spirituale senza la quale, a ogni livello, la Musica inaridisce e muore.
“Ego”, ergo sum …
"Cogito ergo sum",
l’espressione latina "Penso dunque sono", è quella con cui Cartesio
esprime la certezza indubitabile che l'uomo ha di sé stesso in quanto individuo
pensante. Se per Agostino il dubbio era espressione della verità e significava
la capacità di dubitare in presenza di una verità trascendente che rende
possibile il pensiero, per Cartesio invece, è la verità a scaturire dal dubbio.
Il musicista vive perennemente in questa
condizione incerta ed è bene che sia così. Il dubbio è il primo passo verso
quel perfezionamento estetico che permette di approdare ad una personale e esclusiva
verità.
L’interpretazione
musicale è un concentrato di dubbi e verità. La sua manifestazione si
riaggancia inevitabilmente a falsarighe antecedenti e scorre in salita lungo un
solco già tracciato in precedenza. Non è possibile scostarsi da questo percorso
più di tanto perché è delimitato da mura alte e spesse, difficilmente valicabili.
Ogni tanto fra le mura si possono scorgere alcune brecce e per far sì che il
tempo non le consumi più di tanto, chi è geniale ha successo nel rinforzarle
con nuova malta. Chi non riesce a muoversi lungo questo percorso, preferisce uscire
da una breccia e percorrere una strada inesplorata.
Pochissimi però azzeccano quella giusta.
Durante il mio
percorso d’insegnamento ho cercato e cerco tutt’ora di far comprendere ai miei
allievi, giovani e meno giovani, che la Musica è normalmente padrona di sé
stessa, nel senso che non ha bisogno più di tanto di un pesante intervento da
parte dell’interprete. La vera interpretazione si muove in equilibrio fra i modelli
del passato, i tentativi di rigenerazione di essi e l’inevitabile intuizione
personale. A seconda delle inclinazioni dell’artista, quest’ultima può presentarsi
genuina oppure artificiale. Non entro in disquisizioni circa la più o meno solida
conoscenza dello stile e delle precedenti e valide interpretazioni, le do per
scontate perché le considero doverosamente
già espletate da parte del giovane musicista. Capita però di trovarsi di
fronte a sperimentazioni che disgraziatamente non trovano alcun legame col
pensiero dell’autore.
La conoscenza di
una partitura e soprattutto la sua assimilazione è legata alla predisposizione
del musicista verso un particolare pensiero musicale. Il suo possesso
sintattico, che può avvenire in pochi giorni o in alcuni mesi a seconda delle
abilità mnemoniche del direttore, non è qualità esclusiva per la sua
comprensione. Il grande Leonard Bernstein raccontava che aveva sempre avuto
problemi nella memorizzazione di una sezione particolare di una sinfonia del
repertorio romantico, nonostante in vita sua l’avesse diretta numerose volte.
Questo fa comprendere che anche in presenza di predisposizioni tutt’altro che
comuni, è possibile incorrere in difficoltà d’ apprendimento. La sintonia con
un certo pensiero compositivo richiede quella peculiare, intima e
incondizionata complicità con la storia personale dell’autore. Conoscere alcuni
intimi particolari della vita di un musicista, ci può improvvisamente
illuminare su alcune modalità interpretative anche di una sola battuta.
L’umiltà
nell’avvicinamento all’opera musicale è alla base dell’onestà del risultato
interpretativo. L’ “ego” smisurato di
molti direttori d’orchestra riesce frequentemente ad annientare lo
spirito più profondo di una composizione. La ricerca di effetti o il ricorso
alle “regole” filologiche esagerate ad opera di musicisti poco propensi alla
naturalezza, sono capaci di vanificare il vero messaggio del compositore
procurando la frantumazione dell’idea musicale e il conseguente allontanamento
dalla sua originalità. Quando ho occasione di ascoltare un allievo alle prese con
una sinfonia del repertorio classico o romantico, mi aspetto che prima o poi
incorra in certe insidie tipiche di quel particolare autore. Solitamente è per
quella mancanza di “respiro” indispensabile all’esecuzione musicale; si tratti
di Mozart, di Beethoven o Brahms, il respiro, ovvero il fraseggio, si rivela quasi sempre inadeguato.
Ogni autore ha un
suo particolare respiro: quello di Beethoven è corto, concentratissimo, quello
di Brahms ampio e al contempo intimo, quello di Debussy conciso e determinato.
Se Tchaikovsky si riconosce per un respiro largo e cantabile, quello di Ravel è
contraddistinto da una luminosa densità. Il respiro è il segno distintivo e
primario dell’autore. E’ la fusione dei due elementi strutturali principali di
una composizione, l’agogica e la dinamica. Grazie a essi vive e si trasforma
all’interno della partitura mutandone il carattere, ma mantenendone l’idea
musicale. L’allontanamento da questo segno distintivo fa sì che la composizione
si snaturi e si trasformi in qualcos’ altro.
L’impotenza di certi interpreti si palesa nel momento in cui si ascoltano
affermazioni del tipo: “La mia esecuzione brahmsiana ha un’impronta classica” oppure
“Il mio Tchaikovsky ha un carattere francese”. Ci manca il Wagner intimo e poi
siamo a posto.
Ovviamente,
l’ingenuità di un giovane direttore è giustificabile. Gli si perdona anche l’
”ego” sovrabbondante tipico dell’età. Meno perdonabile è l’irresponsabilità di chi ha preteso
d’insegnarli l’arte direttoriale perdendosi in disquisizioni di banale tecnica
gestuale senza preoccuparsi di educarlo al buon gusto musicale e a un onesto
rispetto del testo.
“Ama la verità ma
perdona l'errore” (Voltaire)
Franco
Ferrara, il grandissimo direttore d’orchestra e Maestro di noi maestri, non
amava parlare dei suoi grandi colleghi. Se ne aveva occasione, era soltanto per
esaltarne le qualità straordinarie e sottolinearne le diversità. Quando
accennava a Furtwängler non mancava di
esaltarne l’immensità del pensiero e la gigantesca e totalizzante figura. Se
parlava di Karajan era per metterne in risalto la genialità e la grande
sensibilità. Di alcuni, a quel tempo giovani emergenti, diceva soltanto: “Ah, sì … bravo, bravissimo, ma è più famoso
che bravo.” Soltanto di uno ne parlava in senso assoluto e con una
devozione degna di un semidio: Arturo Toscanini. Non mancava di dire che
nonostante la scelta discutibile dei tempi e una certa aggressività esecutiva, con
lui la Musica viveva sempre: “Sì, forse sarà
discutibile, ma è sempre vivo!”
Erano i tempi del Karajan da copertina, onnipresente coi
suoi dischi in casa di ogni melomane e studente di musica. La mia generazione,
abbandonati i vecchi 33 giri graffiati e ereditati dai genitori con esecuzioni a
volte anonime, si riversava sulla radio
e sulla filodiffusione per ascoltare voracemente tutto. Era la fine degli anni
’60. La televisione, allora in bianco e
nero, al sabato intorno a mezzogiorno era solita mandare in onda concerti; la
mania dei quiz e dei cuochi da osteria era ancora lontana. Per un certo periodo
c’erano immancabilmente i film di Karajan con l’orchestra di Berlino che ora
possiamo trovare anche in DVD e su Youtube, esattamente come la carne
Simmenthal sugli scaffali del supermercato. Ricordo ancora con quale stupore m’incantai
col ciclo delle sinfonie di Beethoven e successivamente con gli straordinari concerti di Rachmaninov e Tchaikovsky assieme a
Weissenberg. Per non parlare delle sinfonie di Brahms e Tchaikovsky. Insomma,
Herbert era l’ideale modello per molti giovani aspiranti direttori. Un modello
totalmente sconosciuto nella sua vera profondità, ma così impressionante da non
poter lasciare indifferenti. La bellezza del suono di Karajan è cosa nota. Il
suo gusto per l’amalgama e un certo rifiuto per il dettaglio erano segni
distintivi del suo pensiero interpretativo. Si trattasse di Beethoven o di
Stravinsky, la ricerca del suono era il punto di partenza per la conduzione
della composizione.
Il fatto che Karajan colpisse così tanto noi giovani, non
stava certo nell’estetica del suono. A quindici o sedici anni è difficile
averne già una consapevolezza. Era più che altro la disinvolta padronanza della
Musica che esplicava nella direzione a memoria e nella sua straordinaria
abilità nel plasmare l’orchestra come se al posto della bacchetta impugnasse un
pennello col quale combinare colori e profondità, esattamente come un sensibile
pittore. Ovviamente non era l’unico ideale modello di direttore perché quando
iniziai a frequentare i concerti della Scala o del Conservatorio altri
straordinari direttori avevano già iniziato a far parte del mio mondo ideale.
Uno dei primi concerti da me ascoltati alla Scala fu la “Missa Solemnis” di
Beethoven diretta da un anziano e canuto Eugen Jochum. Nonostante la difficoltà
di comprensione della composizione che soltanto in età matura sono riuscito a
elaborare, quel concerto è rimasto impresso fortemente nella mia memoria perché
per la prima volta mi fece intuire la differenza fra una normale esecuzione e
la celebrazione di un rito solenne. Negli anni successivi, ancora studente,
ebbi la straordinaria opportunità di poter seguire le prove di tantissimi
direttori d’orchestra della vecchia e della nuova generazione che qui cito in
ordine sparso: Karl Böhm, Jascha Horenstein, Wolfgang Sawallisch, Leonard
Bernstein, Lorin Maazel, Daniel Barenboim, Zubin Mehta, Carlo Maria Giulini,
Claudio Abbado, Riccardo Muti. Ognuno di loro, con la personale peculiarità e
maestria, mostrava già ai miei occhi una caratteristica condivisa: la nobiltà
d’intenzione e il rispetto assoluto della partitura.
Tornando a Franco Ferrara amo citare un aneddoto
personale che i miei allievi ovviamente conoscono. Egli non era un insegnante
nel senso comunemente inteso, era la
Musica personificata. Da lui si andava non tanto per imparare qualcosa di specifico
perché non era assolutamente in grado di esplicarlo didatticamente, bensì era
come andare in pellegrinaggio a Lourdes in attesa di una grazia. In mancanza quasi assoluta di registrazioni
audio e video, solo chi ha potuto conoscerlo dal vivo può tentarne un ritratto
perché il mito che gli aleggia intorno non fa che ingigantirne il mistero. Da
lui si andava per acquisire certezze circa la propria natura. Solo con la sua
presenza, magari con una smorfia di disgusto, era capace di modificare per sempre
l’avvenire di un giovane direttore. Possedeva un magnetismo totalizzante. Se
non l’avessi visto con i miei occhi saltare sul podio, urlare col suo inconfondibile accento siciliano "Tchrombooni!" e sentire
improvvisamente trasformata la sezione, mai ci avrei creduto. A lui devo la
comprensione di Beethoven. Il giorno in cui diressi l’Ouverture Coriolano e mi
sentii afferrare per il braccio urlandomi: “Fermati,
feeermatiiiiiiii!!! Po-po-po! Come Karajan lo fa, come Karajan!”. Non disse
altro, ma io compresi all’istante che lui, come depositario dell’arte
toscaniniana, non amava le mezze tinte. Per lui Beethoven era come un dipinto
cubista di Picasso, doveva essere scolpito con linee ben definite e poche
“curve”: rigido, inflessibile, terribile.
Ricordo che un giorno un giovane direttore giapponese gli
chiese se quel punto di quella tale ouverture doveva dirigerlo in due o in
quattro. Ferrara gli rispose tranquillamente che forse poteva dirigerlo in
cinque! Non sopportava la banalità durante la conduzione di una composizione,
pretendeva soltanto la verità, ovviamente quella del compositore che doveva
rivivere nella bacchetta del direttore. Ecco perché aveva una venerazione per
Toscanini, fulgido esempio di rigore, onestà intellettuale e partecipazione
emotiva ma sempre controllata. Ferrara non mancava di ricordare a noi tutti,
prima del nostro ingresso sul palcoscenico, la più ardua delle condizioni
ideali da raggiungere durante la direzione di un brano: “Vai, ma mi raccomando, cuore caldo e cervello freddo!”.
C’erano una volta le religioni e a loro stretta
osservanza. C’erano i riti, oramai sopravvissuti nell’esteriorità e c’era la
fede, unica superstite per chi la conserva ancora. In Musica è un po’ la stessa
cosa, sopravvivono l’ideale di bellezza e elevazione spirituale per chi li mantiene
in vita, mentre per altri rimane il godimento dell’intrattenimento puro e
semplice. Questo atteggiamento riguarda i musicisti e gli ascoltatori. I primi,
ascoltatori “ante litteram”, per poter spiccare un salto di qualità e
svincolarsi da una visone puramente epicurea, dovrebbero esercitare sin da
subito un immenso sforzo personale atto a sconfiggere il facile, il banale, il
conveniente. Posizione scomoda che prefigura un cammino lungo che ha inizio in gioventù.
Mi riallaccio all’introduzione di questo mio scritto e all’importanza di un
ingresso ben guidato nel mondo della Musica al fine di preparare un terreno
fertile per la crescita del futuro artista. Ovviamente le mie considerazioni
riguardano chi evidenzia precocemente quelle predisposizioni che lo differenziano
dal comune amatore, seppur di talento. Quest’ultimo, peraltro, se posto nelle
medesime condizioni di crescita ha la possibilità di giungere egualmente a quel
mondo ideale particolare, esattamente come il futuro artista in carriera, e
avere quell’attitudine alla comprensione della Musica a volte superiore
all’artista stesso perché imprigionato dalla quotidianità e dalla ripetitività
del proprio compito.
In ambito direttoriale, dove la destrezza gestuale è soltanto la parte manifesta di una ben
più complessa tecnica che include abilità uditive, di memorizzazione,
d’immaginazione, di persuasione e per ultimo d’interpretazione, l’aspettativa
verso un giovane può essere disattesa
dopo pochi anni a causa di un
inatteso livellamento e un’omogeneizzazione causati dalla routine precoce. Le
scelte effettuate all’ inizio del corso di studi e poi con l’ingresso nell’attività
artistica, hanno la forza per delinearne il futuro personale e musicale facendo
sì che tenda a sviluppare le proprie intuizioni e rinnovare continuamente il
proprio pensiero interpretativo evitando di cadere nell’ovvio, se non nel
cattivo gusto. Il possesso di un’ottima e comunemente intesa “tecnica direttoriale”
gestuale semplifica certamente il compito del direttore, soprattutto in
un’epoca dove non c’è tempo per pensare, ma soltanto per agire. In periodi dove
l’apparenza è sovrana e in concomitanza di fattori oggi ritenuti fondamentali
per questa professione come l’avvenenza dell’artista, la sua rapidità nella
preparazione, l’accontentarsi dei risultati a volte mediocri e il non porsi
domande eccessivamente problematiche, accade che un giovane direttore diventi
suo malgrado un riferimento inadatto per altri giovani. Un brutto circolo
vizioso che non fa bene alla Musica. Il fatto che salga addirittura sui podi
delle orchestre più blasonate non è di per sé sbagliato, ma è molte volte collegato
a concomitanze che qui preferisco non prendere in considerazione per non
scivolare nella sterile polemica e perché comunque fanno parte di un andamento
secolare decisamente “umano, troppo
umano”.
In tempi antichi sul piedistallo si ergevano gli dei e i
semidei, quelli che Dante condannava e da allora nulla è cambiato. Come recita
un aforisma di Bertold Brecht: “Sventurata
la terra che ha bisogno di eroi”.
Perché Karajan, gran cerimoniere, aveva ragione
Ci fu un
periodo in cui la figura di Herbert von Karajan venne messa in discussione. Non
mi riferisco alle polemiche circa ai suoi trascorsi collegati alla sua adesione
giovanile al Nazismo, bensì alle critiche ricevute da quel circuito di
intellettuali detrattori che per partito preso e in contrapposizione ai ”nuovi
modelli” direttoriali, pensava di determinarne il precoce annichilimento. Sfortunatamente
per loro, Karajan sopravvive tutt’ora grazie alla sua grandezza, alla sua
lungimiranza e attualità di pensiero.
Ovviamente
possiamo discutere all’infinito se le sue interpretazioni, come quelle di altri
grandi direttori ormai scomparsi, abbiano valore per le orecchie e i cuori degli
anni duemila, ma non è questo il punto. E’ certo però che la sua testimonianza
di stile, rigore, bellezza, poetica e raffinatezza si perpetua nelle centinaia
di registrazioni audio e video che fortunatamente abbiamo a disposizione. Sono
circa cinquant’anni di un patrimonio straordinario utilissimo per comprenderne
il percorso stilistico, dalla prima maturità al coronamento finale della sua
grandezza musicale.
Il giovane Karajan dirigeva con gli occhi aperti e una
gestualità generosissima, quest’ultima caratteristica comune agli inizi per
molti direttori. Con l’arrivo alla Filarmonica di Berlino, iniziò a dirigere ad
occhi chiusi perché quest’azione gli permetteva di “vedere” meglio la partitura
e, non vedendo l’orchestra, poteva sentirla meglio, concentrandosi sugli
equilibri differenti. Pur essendo pianista, le partiture le studiava a memoria,
senza alcun ausilio dello strumento. In questo modo le interiorizzava fino
all’ultimo dettaglio assorbendone l’essenza spirituale. Caso unico e
irripetibile, non imitabile ma certamente da osservare attentamente nei più
minuti dettagli se si desidera comprenderne alcuni segreti essenziali che
possono aiutare un giovane nell’impresa di emularne lo spirito per avvicinarsi
al suo risultato ideale.
Karajan è stato l’unico direttore che è riuscito a
comprendere profondamente la funzionalità espressiva del proprio gesto e a
modificarlo negli anni portandolo ad un punto di massimo perfezionamento. Questo percorso si dovette
interrompere a metà degli anni ’70 a causa dell’operazione per la rimozione di
un’ernia spinale che lo lasciò claudicante per il resto della vita. Il Karajan
superuomo che pilotava l’aereo personale, guidava macchine sportive, sciava sul
Monte Bianco e navigava sul suo yacht era improvvisamente scomparso. Al suo
posto era apparso un uomo che si muoveva rigidamente e in modo limitato, ma che
improvvisamente dirigeva con gli occhi spalancati, divenuti essi una rinnovata proiezione
delle braccia non più articolabili con l’ identica elasticità degli anni
precedenti. Il passaggio dalla buona condizione fisica a quella più compromessa
segnò la grande svolta spirituale di Karajan e il suo passaggio verso una
direzione indubbiamente meno particolareggiata ma molto più intensa, naturale
ma ugualmente contemplativa.
Il viso di Karajan era quasi sempre ieratico,
difficilmente lo si vedeva sorridere, ma col gesto esprimeva tutto: movimento,
colore, profondità di suono, grazia, potenza. Aveva prima di tutto e sopra ogni
cosa la solennità di un maestro di cerimonia, una sorta di druido depositario
di una cultura immutabile nella sua essenza più profonda e millenaria. Si
poteva scorgere una tensione nella zona inferiore del viso o un leggero aggrottamento
della fronte, ma sempre incorniciati in una nobiltà di espressione da sempre
posseduta. Ciò che ad altri direttori costava spiegazioni talvolta superflue
con conseguente perdita di concentrazione da parte dell’esecutore, con lui
diveniva subito comprensibile soltanto grazie ad un piccolo gesto. Si trattasse
di un attacco flebile ad un flauto o un disteso appoggio dei violini, egli non
aveva bisogno di chiedere altro, al contrario di direttori anche bravi ma che
non possedendo certe qualità gestuali dovevano per forza ricorrere a
sollecitazioni verbali. Aveva compreso molto bene che la ricerca del suono, intesa
come modulazione di intensità e sfumature, dipendeva esclusivamente
dall’ampiezza o dalla ristrettezza del gesto e che una frase, anche complessa, in
questo modo era possibile governarla al meglio con un risparmio di energia
fisica. Infatti, col tempo Karajan aveva raggiunto un grande equilibrio che gli
permetteva di controllare la sudorazione e le pulsazioni, esattamente come un
atleta durante il maggiore sforzo. Ovviamente tutto questo era il risultato di
un impegno di concentrazione maturato col tempo grazie a uno studio mnemonico
particolarissimo già rivelato in età giovanile e manifestato poi grandemente
nei decenni successivi. Soprattutto il frutto di una chiara e maturata idea
musicale scaturita da un lungo studio e una lunga assimilazione della partitura,
tale da poter poi essere emanata attraverso il gesto fisico.
Molti sono portati a pensare che il lungo percorso di
Karajan verso la ricerca di una perfezione del risultato musicale fosse opera
esclusiva di un esibizionista o di un megalomane accentratore tout-court. Indubbiamente
il superuomo di Nietzsche in lui aveva trovato dimora nella sua più alta
manifestazione, ma concludendosi improvvisamente col suo ritorno a uomo
normale. L’ultimo periodo artistico di Karajan, governato da essenzialità,
moderata ricerca del dettaglio e solennità ci ha lasciato testimonianze uniche
della sua opera: l’ottava e la nona Sinfonia di Bruckner, la Missa Solemnis di
Beethoven, il Deutsches Requiem di Brahms, Il Don Carlo di Verdi. In tali
esecuzioni possiamo osservare talvolta un direttore pressoché immobile al quale
basta sollevare un sopracciglio per governare un fraseggio o richiedere una
dinamica. Praticamente l’essenza della direzione d’orchestra nel suo più intimo
significato: la perpetuazione di un’antica cerimonia sul difficile cammino
verso la perfezione di sé stessi e della Musica. Un mandato solenne teso a far
proseliti al fine di divulgarne il messaggio trascendente.
… E ci sono direttori
e Direttori. Il riconoscimento
immediato del talento di un giovane aspirante direttore, nel mio caso avviene
quasi sempre nel momento in cui egli entra nella stanza dove tengo il colloquio
per l’esame d’ammissione ai miei corsi. Il personale modo di camminare, di
salutare, di stringermi la mano ne denota immediatamente il carattere e in
parte la personalità. Soprattutto è indice del suo “senso ritmico” generale e
della sua determinazione. In tutti questi anni, raramente mi sono dovuto ricredere nel momento in cui egli saliva sul
podio; le caratteristiche personali di solito sono mantenute pressoché integralmente.
Altro sono le qualità strettamente musicali, non sempre decisive per il futuro successo,
esattamente come avviene in altri campi dove l’evidenza del risultato è molte
volte svincolata dal suo effettivo merito.
Il ruolo del direttore, si sa, è oggetto da sempre di
critiche. In tempi dove il senso dell’autorità è pressoché scomparso, è già
molto che egli possegga autorevolezza e la mantenga. Questa non si impara, né
si insegna; c’è o non c’è. Non dipende sempre da quanto si conosce, né dal
ruolo che si ricopre e può durare nel tempo grazie alla solidità della persona,
oppure svanire in breve a causa della sua debolezza. Contrariamente al senso di
autorità che può sussistere per l’ufficio ricoperto al momento, l’autorevolezza
appartiene al carattere originale dell’individuo e può arricchirsi lungo tutto
l’arco della vita con lo sviluppo della personalità, grazie alle esperienze
precedenti. In presenza di giovani con caratteristiche “speciali”, il compito
del docente può presentarsi arduo, in quanto deve riuscire a governare un
carattere solitamente autonomo e irrequieto e nel contempo bilanciarlo con
alcune richieste comportamentali che devono essere acquisite e maturate
dall’allievo al fine di non neutralizzare le proprie qualità. Non si contano i
casi di brillanti e talentuosi giovani che “si son dati la zappa sui piedi” a causa
di un immaturo carattere e di una presunzione esagerata. Se invece, ci troviamo
in presenza di persone con “requisiti” inadatti nel reale senso del termine,
ovvero timidezza cronica, mancanza di
autocontrollo, limitata armoniosità di movimento e quindi assenza del basilare
senso ritmico, intraprendere questo studio diviene pressoché impossibile. Eppure,
c’è chi ci tenta caparbiamente …
Ovviamente, c’è chi nasce direttore. Alcuni sono nati con
la bacchetta al posto del cordone ombelicale, come Zubin Mehta. La plasticità
del suo gesto, il senso vitale e l’eleganza insita in esso, nonché
l’autorevolezza musicale sono qualità naturali impossibili da imparare, ma che
è probabile soltanto affinare col tempo. A trent’anni Mehta dirigeva già come
un direttore con un’esperienza ventennale, con una padronanza della materia
musicale e con una maturità rara. Ovviamente si parla di un fuoriclasse che,
come altri grandi, è inimitabile e che probabilmente sarebbe emerso anche senza
l’ausilio di alcuna scuola. In vita mia conobbi un solo direttore, di lui più
giovane di tre anni e bravissimo, che gli somigliava nel modo di dirigere e che
possedeva una simile plastica gestualità, ovviamente non ricalcata: il viennese
Walter Weller, direttore sensibile e profondo, ma sconosciuto al grande
pubblico.
Non si pensi che musicisti in limitato possesso di queste
rare e insite peculiarità, non abbiano ugualmente la possibilità di approdare a
validi traguardi. Non si contano i casi di direttori, diciamo un po’
impacciati, che grazie alla loro statura musicale sono riusciti a compensare le
carenze gestuali comunemente intese, superando ostacoli di diffidenza e
ritrosia iniziali da parte delle orchestre. Sfortunatamente, la figura del
direttore d’orchestra si è modificata nel tempo assumendo l’aspetto più dello
showman che del musicista. Il suo atteggiamento eroico e la sua figura
demiurgica hanno incantato per decenni pubblico e orchestre, non sempre grazie
agli specifici valori di competenza e bravura. Non starò qui a disquisire su fatti
comprensibili a tutti, dico soltanto che in trent’anni e più d’insegnamento mi
sono capitati allievi indiscutibilmente più dotati e competenti di celebri e
onnipresenti direttori da tutti conosciuti. Alcuni di loro, i più solidi
umanamente, sono andati avanti con costanza su una strada lenta ma di personale
soddisfazione, tuttavia senza avere successivamente un largo riconoscimento
“pubblico”. Altri si sono arenati alla
prima difficoltà perché insufficienti e deboli di carattere, incapaci di
affrontare situazioni emotive pesanti, talvolta in grado di ledere
irrimediabilmente il proprio temperamento. C’è poi chi ha avuto la classica
sfortuna …
Fra i direttori d’orchestra “particolari” tuttora in
attività, non manco mai di citare ai miei allievi Valery Gergiev, direttore
russo con caratteristiche singolari. La sua tecnica direttoriale anche in
questo caso non fa “scuola”. Il modo di dirigere è indiscutibilmente personale,
con quel movimento vibratorio continuo che certamente appartiene al suo istinto
musicale e non è frutto di un apprendimento convenzionale. Dirige soprattutto
con gli occhi, la mano è soltanto un coadiuvante espressivo, certamente non un
riferimento univoco per gli orchestrali perché talvolta può apparire confuso.
Eppure, basta parlare con i musicisti che hanno avuto occasione di suonare con
lui, tutti vi diranno che egli comunica una sicurezza (soprattutto musicale)
per la quale è impossibile non comprenderlo nella sua completezza. Anche se
ogni tanto può apparire indecifrabile tecnicamente, la sua padronanza
espressiva è totalizzante.
Se esistono direttori
e Direttori, è perché esiste musica e Musica. I Direttori hanno
a cuore generalmente soltanto la grande Musica, per il semplice fatto che sin da
giovani hanno operato scelte ben determinate e consapevoli ed effettuato risolutive
scremature. I direttori bravi,
professionali, affidabili ma ordinari, generalmente si occupano un po’ di tutto
e grazie alla loro “versatilità” saltano da una sinfonia di Pleyel al Torvaldo
e Dorliska di Rossini o dalla Suite de Lo Schiaccianoci di Tchaikovsky al
Divertissment di Ibert, esattamente come un’ape di fiore in fiore. Come le api,
a seconda dei fiori visitati e che permettono loro di produrre dolce miele
d’Acacia o amaro miele di Corbezzolo, alcuni di questi direttori raramente entusiasmano per le loro esecuzioni. In genere
si producono in oneste ed efficienti perfomance, ma niente più. Se poi, per
sventurata condizione, questi direttori
in vita loro si sono occupati soltanto della musica e poco della Musica,
nel momento in cui s’avvicinano a quest’ultima, frequentemente la feriscono
mortalmente con effetti devastanti per i musicisti competenti e sensibili e per gli
ascoltatori dalle orecchie più raffinate e colte.
Ho illustrato precedentemente il mio pensiero riguardo a
un’indispensabile “ricerca della perfezione” sin dagli albori del proprio iter
formativo. Quando un giovane inizia per desiderio, o ritrovandosi suo malgrado,
a occuparsi della Musica, ha di fronte due strade: il perenne divertimento fine
a sé stesso come atto totalmente disimpegnato o un giuramento solenne ai piedi
della bellezza nella sua totalità di accezioni. E’ un po’ così per tutte le
attività umane, comuni o speciali. Noi siamo ciò che mangiamo, ciò che
guardiamo, ciò che leggiamo e ascoltiamo. Ognuna di queste azioni ci condiziona
in ogni secondo della nostra vita e condiziona le nostre reazioni. Un buon
sapore, la visione di un campo fiorito, la lettura di una poesia o l’ascolto
del canto degli uccelli mentre siamo sdraiati su un prato è in grado di
trasformarci, magari anche per poco, in una condizione particolarissima e
elevata, proiettandoci al di fuori dalle nostre ovvietà quotidiane.
Beethoven, senza Schiller. Debussy, senza Turner. Verdi, senza Shakespeare.
Un giorno venne da me un ex allievo al quale avevano
proposto di dirigere alcune arie d’opera in uno di quei primi concerti ai quali
“è impossibile dire di no”. Mancava
un paio di giorni all’inizio delle prove e, nonostante avesse studiato per
diverse settimane, egli era preoccupatissimo per le solite banalità: come
togliere le corone, se applicare un respiro e “ovviamente” dove dirigere in
uno, in due, in tre o in quattro. Fortunatamente non c’era nulla del repertorio
del novecento, sicché mi risparmiai di disquisire sul cinque e sul sette … Fra
i vari brani c’era un aria dall’Otello di Verdi e dissertammo per circa dieci
minuti sulle solite banalità direttoriali. Il ragazzo sembrava essere molto ferrato
perché nei mesi precedenti aveva ascoltato due importanti registrazioni di
riferimento, quelle di Toscanini e Karajan. Quando gli chiesi se per caso si
era preoccupato di leggere anche il
dramma di Shakespeare, mi guardò con un’aria mista a sconforto e incredulità,
come per dire: ma io sono un musicista, non un letterato! Un banale esempio di
come, prima di un viaggio, si possa “partire in un sacco” e “tornare in un
baule”. Esattamente come accade a molti adolescenti quando si recano in gita
scolastica infestando città d’arte come Firenze, Roma e Venezia. Guardano, ma
non osservano. Sentono, ma non ascoltano. Parlano, ma non dibattono.
Nel caso dei giovani musicisti è di frequente una regola comportamentale
e a volte, in presenza di improvvise intuizioni interpretative, forse è bene
sia così. La Musica, quella pura in particolare, è molto spesso monopolizzante
perché si esprime da sola e non necessita di particolari ausili, bensì soltanto
di vera folgorazione. Quando però si ha a che fare con una composizione che
prevede un testo, si presuppone che l’interprete si avvicini ugualmente a quel
mondo, particolare e parallelo anch’esso permeato di emozioni, e che sta alla
base dell’opera musicale. Si tratti dell’Otello di Verdi, del Requiem di Mozart
o dei Carmina Burana di Orff, fa poca differenza. Il testo poetico è già musica
di per sé e, ovviamente, comanda. Chi si occupa di teatro musicale, ben sa che
prima ancora di sfogliare una partitura è indispensabile conoscerne il
contenuto letterario alla perfezione. Soltanto così è possibile entrare nei più
nascosti labirinti drammaturgici e magari scoprire che una parola è in grado di
suggerire un colore particolare o un’intensità sonora da richiedere
all’orchestra o a un cantante.
Anche per la musica pura vale un po’ il medesimo
ragionamento: scoprire che il pittore inglese Turner e il giapponese Hokusai
ebbero la più grande influenza sulle opere di Debussy, cambia radicalmente la
concezione che generalmente si potrebbe avere dell’impressionismo musicale in
relazione alla medesima corrente pittorica del periodo. Leggere “Della poesia
ingenua e sentimentale” e scoprire che Schiller in vita sua si occupò di
“bellezza” e di “sublime”, può far comprendere anche una sola parola o una
singola nota dell’Inno alla Gioia della Nona Sinfonia di Beethoven e realizzare all’istante
il modo di eseguirla. Rimarrà sempre nella mia mente il momento in cui Carlo
Maria Giulini, dirigendo questo capolavoro, in prova fermò il coro chiedendo
che la parola “Gott” precedente l’inizio della Marcia e educatamente cantata in
fortissimo, venisse scandita quasi urlata e non solo per il ff scritto
in partitura. Evidentemente, per un fervente credente qual’era Giulini, quella
parola, accompagnata da quelle note, poteva essere eseguita soltanto con
quell’intenzione tremenda e assoluta.
Se trasmettere il pensiero musicale occidentale è cosa relativamente semplice fra individui
appartenenti alla medesima cultura, diventa talvolta un’impresa faticosa quando
ci si rivolge a musicisti provenienti da zone del mondo dove la musica praticata
e ascoltata dalla stragrande maggioranza della popolazione non è propriamente
la nostra. L’amore e l’attenzione che da decenni e decenni popoli a noi
culturalmente lontanissimi riversano sullo studio della Musica occidentale e
sulla sua conservazione e divulgazione, è cosa nota. Meno noto è, soprattutto
ai non musicisti, che la sensibilità e capacità di comprensione verso un brano
musicale, anche a parità di conoscenza sintattica, non è la stessa. Quando si
parla di universalità della musica, si commette un grossolano errore. E’ come
parlare di universalità del cibo: chi di noi si ciberebbe di scarafaggi,
cavallette o cani? Eppure, in alcuni luoghi di questo pianeta, c’è chi ne va
matto. Non credo basterebbe frequentare dieci anni di corso di cucina “alternativa”
per comprendere a fondo simili comportamenti gastronomici. Potremmo al massimo
conoscerne a fondo le motivazioni senza peraltro condividerle e continuare a
mangiar spaghetti al pomodoro. La musica, come tutte le arti, non è sufficiente
comprenderla, va vissuta prima e dopo, con l’inevitabile conseguenza di una modificazione
di noi stessi. L’uomo, col suo ragionamento e sforzo di immaginazione, è
indubbiamente in grado di darsi motivazioni d’ogni tipo e giungere a un atto di
comprensione, ma raramente di condivisione. Secoli di “habitat” culturale e
secoli di storia non si azzerano in pochi anni di studio, nemmeno per un’onesta
sincerità d’intenzioni. Se avviene ciò è normalmente per un semplice desiderio
di acquisizione enciclopedica e nulla più.
Mi è accaduto di avere fra i miei allievi e allieve
alcuni validi musicisti già in età matura e provenienti da Giappone, Vietnam o
Corea. In genere erano sempre preparatissimi e ferrati sulle composizioni che
dovevano dirigere, alcuni di loro, tanto per cambiare, tecnicamente molto più
preparati degli italiani. Memoria più sviluppata, precisione gestuale, buon
orecchio selettivo. Tutte caratteristiche che definiscono la “professionalità”
del moderno direttore d’orchestra e che ne denotano l’affidabilità. Il problema
è sempre sorto quando, nel mezzo di una conduzione pressoché perfetta, durante
l’esecuzione accadeva di tutto e di più.
“Senti, Hakoi (nome inventato), vorrei farti notare che
quel Sol dei violini ha un punto e significa che deve essere eseguito staccato,
separato dalle altre note.”
“Ah, subito Maestlo, adesso lifaccio tutto da capo”. Passano le battute e si arriva al medesimo punto.
“Guarda che i violini stanno suonando staccato!”
Ma Maestlo, Lei ha appena detto che i violini hanno un
punto sul Sol!” . Si ripete tutto da capo e si arriva ancora al medesimo
punto.
“Scusa, Hakoi, ma il movimento è lento e quel Sol
staccato va eseguito nel tempo di esecuzione. Questo è un andante, non un
allegro!”.
Ecco il
punto: il Sol col punto. Riuscire a far comprendere che scritto da Bach ha un
significato e va eseguito in un modo, scritto da Mozart, da Schubert o da
Beethoven in un altro e che è sempre in relazione alla velocità del movimento
in questione, è stata ed è tutt’ora un’impresa talvolta impervia. Il punto, come
altri segni grafici, inteso come concetto extra-musicale e trascendentale, per
alcuni è totalmente incomprensibile. Che appartenga a un brano di Bartok o
Stravinsky, assumendone di conseguenza un’espressione del tutto differente,
sembra sia quasi un’impresa imperscrutabile. Se viene puntualizzato e compiuto al
momento dell’esecuzione è unicamente per una formalità grammaticale. Non è
facile far comprendere che una nota tenuta di Schubert è come una carezza
sensuale o che uno sforzato di Beethoven può somigliare a un coltellata nella
schiena a individui che, magari per cultura, non sono abituati a scambi fisici
come una calorosa stretta di mano accompagnata da un abbraccio o che hanno un
rifiuto “storico e sociale” per l’aggressività sotto ogni forma. Checché se ne
pensi, simili comportamenti non riguardano soltanto gli orientali, ogni tanto
mi è capitato anche con italiani, tedeschi (!!!), francesi e spagnoli. E’
sempre una questione di frequentazioni e di atteggiamenti personali e universali.
Certe volte è una carenza di sensibilità e altre un’evidente incapacità di
comprensione che va al di là delle note, magari elegantemente eseguite. Ma ciò
riguarda anche chi, pur trovandosi per cultura e formazione a operare da anni
in condizioni “privilegiate”, in certe occasioni svela la propria vera natura:
l’ incomunicabilità e il fraintendimento del testo musicale.
Sarà stato intorno agli anni novanta, durante uno di quei
pomeriggi estivi talmente torridi che ti portano soltanto a star fermo perché
anche la respirazione ti fa sudare come un cammello. Sdraiato sul divano accesi
la televisione che dalla sera precedente era rimasta sintonizzata sul canale
tedesco ZDF. Bastarono due note per scoprire che l’orchestra stava suonando le
prime battute della mia amatissima “Missa Solemnis”, quella ascoltata da
giovanissimo alla Scala e che lasciò un marchio indelebile nel mio animo. Il
direttore, finalmente inquadrato, era famosissimo. Uno di quelli che in vita
sua ha trascorso forse più ore in sala d’incisione che in sala da concerto. Non
dico altro. A un certo momento, dopo una frase dei clarinetti molto ben
eseguita, si rivolse agli esecutori alzando il pollice della mano sinistra per
indicare un volgarissimo e fuori luogo “OK!”. In quel momento non credetti ai
miei occhi e tutt’ora mi sembra di aver sognato o aver frainteso. Invece no,
era proprio così, ci mancava che dicesse “Dammi
cinque!” e il compimento di questa raffinatezza e sensibilità d’animo
sarebbe stato compiuto nella sua originalissima eccellenza.
Quando rammento a miei allievi questa triste esperienza
personale, non manco mai di paragonare l’ufficialità del momento di
ri-creazione dell’opera musicale a quello esercitato da un’autorità religiosa
durante una funzione. Ve lo immaginereste il Santo Padre interrompersi nel bel
mezzo del suo discorso domenicale, avendo scorso un caro amico fra la folla, e che
improvvisamente gli dicesse a gran voce: “Ci
vediamo dopo a pranzo!”? Dopo un secondo sarebbe la fine definitiva della
Chiesa, con tutti i suoi ministri e apparati.
Per fortuna la Musica è più forte e sopporta anche simili
offese. Ormai è abituata a subire
ingiurie d’ogni tipo, anche da chi non potrebbe permetterselo nemmeno per
scherzo. La nobiltà d’intenzioni e le conseguenti manifestazioni appartengono
soltanto all’animo nobile, perché la Musica, come diceva Leonard Bernstein, è
grande soltanto quando è nobile, in qualsiasi forma essa si presenti.
….”la commedia è l’imitazione di persone che valgono meno,
ma non per un vizio qualsiasi, giacché il ridicolo è una parte del brutto. Il
ridicolo, infatti, è un errore o una bruttura che non reca né sofferenza, né
danno, proprio come la maschera comica è qualcosa di brutto e stravolto, ma
senza sofferenza”. (Aristotele, Poetica)
Un giorno
ebbi occasione di assistere a una prova del grande Wolfgang Sawallisch, giunto
a Milano per dirigere un concerto con musiche di Richard Strauss. Fra i brani
in programma c’era “Heldenleben”, il celebre poema sinfonico cavallo di battaglia
di molti direttori d’estrazione germanica. A un certo punto, Sawallisch fermò
l’orchestra per fare un’osservazione alla sezione dei tromboni che
evidentemente stava suonando “a tutta birra..”. Mi sarei aspettato la solita
richiesta per la diminuzione dell’intensità, del tipo: “Per favore potete suonare più piano?”. Con grande mia sorpresa
Sawallisch non disse nulla, bensì si espresse “nobilmente” soltanto con un
dolce sfregamento dei palmi delle mani, uno sopra l’altro, dicendo: “Dovreste suonare un po’ come …”. Non proferì
altra parola, riprese dal medesimo punto e l’orchestra era improvvisamente
trasfigurata. Ecco un esempio di nobiltà d’intenzione splendidamente espressa
in un modo semplicissimo.
Quello che segue è un articolo pubblicato a suo tempo
dalla rivista “Prospettive Musicali”. Lo ripropongo qui integralmente con
leggere modifiche, a conclusione di queste personali considerazioni su di
un’arte che nei decenni si è profondamente modificata. In meglio o peggio sarà
la storia a dirlo, la mia è soltanto una sollecitazione a meditare su argomenti
talvolta scomodi, ma attuali.
Contrariamente a quanto s’immagina, per dirigere
un’orchestra non occorrono doti straordinarie di tecnica direttoriale né di
preparazione musicale. Occorre semplicemente un discreto senso ritmico e un po’
di orecchio. Prova lampante ne diedero nel passato due tra i più grandi attori
comici americani: Danny Kaye e Jerry Lewis. Chi ebbe la fortuna di assistere
alle loro esilaranti esibizioni nella veste di direttori d’orchestra non può
negare la grande abilità dimostrata, per chiarezza di gesto, incisività e per
presenza direttoriale. Proprio Danny Kaye si esibì con l’Orchestra Filarmonica
di New York in una performance, dove mimava gli atteggiamenti di alcuni
direttori: il giovane alle prime armi, quello più navigato, il vecchio
direttore alla vigilia della pensione, quello con i tic e una rassegna dei
direttori di varia estrazione, dal teutonico intransigente al latino super
focoso, dal nordico preciso al francese “tutto charme”. In pratica una
divertentissima ma grande lezione di direzione d’orchestra.
Simili avvenimenti ci fanno capire che le scuole di
direzione servono ben poco se non ci sono una predisposizione naturale alla
comunicazione e una spontanea e innata musicalità, non tecnicamente acquisita.
Si può apprendere una qualsiasi tecnica strumentale e arrivare a essere un buon
esecutore (se ovviamente non esistono impedimenti fisici e una spiccata
antimusicalità), ma difficilmente si potrà raggiungere un connubio
tecnico-espressivo di spessore in ambito direttoriale, anche studiando
caparbiamente per anni.
La predisposizione fisica è essenziale, certamente non un
requisito di per sé sufficiente, ma molto importante perché componente primaria
per una comunicazione espressiva e per l’impronta sonora propria di un
direttore. Il possesso di una tecnica direttoriale non estranea alla propria
fisionomia è basilare, ma non si creda così scontato. Molti musicisti passano
dal proprio strumento al podio facendosi forza dell’esperienza artistica
maturata negli anni, ma spesso con esiti mediocri perché considerano ovvio il
risultato musicale. Non è così, perché la bacchetta non dovrebbe essere un
corpo estraneo stretto in una mano, ma il prolungamento fisico e la proiezione
mentale del direttore.
Il raggiungimento dell’armonia tra gesto e idea musicale,
indispensabile unione per comunicare con l’orchestra, richiede tempo e
maturazione continua. Un giovane musicista è sicuramente avvantaggiato rispetto
a un collega più maturo, anche se quest’ultimo ha alle spalle una solida
esperienza musicale. Il giovane ha più tempo per inquadrare la propria tecnica
e soprattutto per migliorarla tagliandosela addosso, come un sarto confeziona
un vestito. Naturalmente il corredo di conoscenze accessorie, in altre parole
lo studio di uno o più strumenti, della composizione, degli stili, della storia
della musica e l’appassionata frequentazione di discipline complementari,
completerà la sua formazione; l’esperienza continua con l’orchestra, unione di
uomini prima di tutto, e quindi l’esperienza umana lo arricchirà e contribuirà
alla costruzione dell’individuo-artista. Un colpo di fortuna, se e come
arriverà, sarà il benvenuto.
Il giovane aspirante direttore dovrebbe essere
consapevole che da qualche tempo l’arte della direzione d’orchestra si sta
trasformando; la figura “demiurgica” del direttore così come l’abbiamo
conosciuta per decenni sta svanendo, se non è già addirittura scomparsa, e al
suo posto è subentrata, e sfortunatamente accettata, quella di un “tecnocrate
della bacchetta” pronto a qualsiasi
compito di coordinamento, come un buon manager con i suoi collaboratori. Oggi
ai giovani direttori sono richieste prontezza, salute psico-fisica, efficienza
e devono dimostrarsi inclini ad accettare di eseguire un po’ tutto il
repertorio, anche se sovente a scapito della propria predisposizione e
sensibilità. E’divenuta una triste consuetudine osservare un direttore
cimentarsi con autori con i quali instaura conflitti esistenziali: conduzioni
beethoveniane per Vivaldi, sfumature raveliane per Brahms, fragore mahleriano
per Schumann e così via. Per non parlare della gestualità: ampie evoluzioni del
braccio in brani che richiedono la massima discrezione oppure blocco da
periartrite cronica della spalla per musica che richiede slancio e
passionalità. Errori interpretativi e letture generiche del grande repertorio
sono ormai all’ordine del giorno nonostante le lezioni di figure direttoriali
gigantesche come Furtwängler, Klemperer, Toscanini, Walter e poi Bernstein,
Böhm, Karajan solo per citare alcuni celebri nomi. Incredibile ma vero, anche
nei luoghi consacrati alla grande musica, si ascoltano quotidianamente concerti
noiosi, della peggiore routine tra la generale approvazione di un pubblico
sempre più assuefatto, apparentemente insensibile e distratto. Da qualche tempo
assistiamo a una sorta di generale omologazione alla quale l’esecuzione
musicale sembra non sottrarsi e le orchestre di tutto il mondo, fatte poche e
dovute eccezioni, sono l’esempio più tangibile di un appiattimento del gusto e
di una sempre più scarsa sensibilità alla sollecitazione direttoriale. Vige una
sorta di “rifiuto del comando”, una specie di autogestione, di accordo interno
al quale i direttori, se vogliono dirigere, devono sottomettersi. E molti
direttori d’orchestra sono stati e sono i peggiori “complici” di questa
situazione. Le orchestre, a loro volta succube di situazioni spesso di comodo
(direttori principali eletti per garantirsi contratti discografici e tournée)
si sono ritrovate senza direttori veramente “stabili”, capaci e volonterosi di
plasmare e curare il “sound” oltre che di instaurare quel rapporto umano,
personale, teso alla fusione di anime prima ancora che di strumentisti.
Tutto ciò non deve disarmare il giovane direttore che si
appresta ad affrontare un’arte musicale che rimane sicuramente tra le più
affascinanti e che può riservare grandi soddisfazioni. E’ compito delle nuove
leve di musicisti ricollocarla in una giusta dimensione e donarle un nuovo e
vitale smalto. E’ compito dei maestri inculcare nei giovani il senso di onestà,
artistica prima di tutto e intellettuale in senso più lato. E’ compito di
tutti, musicisti e non, combattere la banalità, non accettare le mode
“filologiche” senza senso e il tecnicismo esasperato che ha da tempo inaridito
le esecuzioni; ricordare che la musica appartiene all’uomo e che è proiezione
dei suoi sentimenti, delle sue passioni e delle sue intuizioni.
Gilberto Serembe, milanese classe 1955, ha fatto in tempo
a studiare Composizione e Direzione d’Orchestra con gli ultimi grandi Maestri
della scuola italiana: Bruno Bettinelli, Franco Ferrara e Mario Gusella. Per
vent’anni ha riversato le proprie forze nell’ impegno direttoriale e in quello
didattico. Poi si è sposato e ha preferito abbandonare le valigie per dedicarsi principalmente a quest’ultima
attività, in quanto gli permette una maggior serenità, tempo per sé stesso e al
contempo molte soddisfazioni. E’ un bravissimo cuoco e i suoi allievi, alcuni
ormai celebri, non mancano mai di condividere le sue ricette culinarie assieme
a quelle musicali. Alcuni fidati musicisti, amici e allievi ritengono sia anche
un buon direttore d’orchestra …
E’ docente di ruolo al Conservatorio di Brescia e per
ventidue anni ha tenuto il corso di Direzione d’Orchestra all’ Accademia
Musicale Pescarese, prima di approdare all’ Italian Conducting Academy di
Milano.