Giorni fa ho avuto l'opportunità di ascoltare in diretta radiofonica una vitale e appassionata interpretazione della Quinta Sinfonia di Mahler eseguita dalla Brussels Philharmonic. Un avvenimento un po' speciale e di tipo affettivo, in quanto un mio giovane allievo, appena nominato Primo Corno dell'orchestra, si cimentava in una composizione molto amata e per lui era un po' il battesimo del fuoco. Avendo superato da qualche decennio la "mahlerite acuta" tipica dei fervori giovanili e viaggiando ormai su sentieri musicali decisamente più sereni, meno conflittuali e devastanti, ho dovuto fare un vero sforzo per ascoltare di fila tutta la composizione. Chi mi conosce, sa che di certe musiche delle quali riconosco la grandezza, riesco ormai a nutrirmi esclusivamente a dosi omeopatiche, pena un disagio psico-fisico che si riflette in insonnie notturne, con note e suoni vaganti per il cervello e che poi, per giorni, prima di essere digerite non danno tregua.
A parte ciò, per l'occasione (cosa che in un ascolto normale di un brano ben conosciuto non faccio mai) ho seguito tutta l'esecuzione con la partitura, col risultato di amplificare all'eccesso l'ascolto di una musica che in sala da concerto vive ovviamente di ben altro suono, con altri echi, altre riflessioni e le necessarie riverberazioni. Ciò che mi ha più infastidito, ma che ormai è prassi comune dappertutto, è stata la registrazione digitale. Posizionare decine di microfoni in corrispondenza dei singoli esecutori o delle singole sezioni non contribuisce certamente al miglioramento e alla definizione di un'esecuzione, casomai ne definisce i dettagli, come se fosse una radiografia sonora. Nel caso di molte musiche, che in sala da concerto vivono proprio per l'amalgama creata dall'acustica della stessa, la registrazione digitale impiegata per una trasmissione dal vivo non fa altro che snaturarne completamente il suono, restituendo all'ascoltatore un messaggio artefatto e lontanissimo dal pensiero dell'autore. Nel caso specifico, vale per Mahler ma all'opposto anche per Ravel e per altri compositori, la definizione eccessiva delle singole parti orchestrali nate in molti casi come asprezze ben congegnate inserite in un contesto sonoro generale, non fa altro che deturpare la sonorità complessiva del brano. Mahler, che di queste asprezze si nutriva, ben sapeva che in una sala da concerto sarebbero state smorzate e sarebbero arrivate alle orecchie degli ascoltatori come sottolineatura di uno stato emotivo e non come come stato emozionale frazionato e a sé stante in grado di interrompere quella tensione del discorso musicale che inevitabilmente necessita di continuità. Alla fine, questo atteggiamento maniacale nell'ambito della registrazione musicale, molto vicino ad una vivisezione sonora, non fa altro che modificare il gusto di chi ascolta (e quindi anche degli esecutori a loro volta ascoltatori) deviando su sentieri estetici completamente lontani dalla realtà, con la conseguente alterazione della percezione dell'opera in oggetto e quindi di una visione veritiera. In definitiva, privandoci di quell'ascolto di tipo analogico che ci appartiene e che è parte naturale del nostro modo di vivere. Il digitale divide ed analizza, l'analogico unisce e sintetizza, esattamente come il nostro pensiero.