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mercoledì 14 agosto 2013

Il mio e il nostro futuro - Pensieri sull’arte e sul suo imprevedibile destino

Il mio e il nostro futuro
Pensieri sull’arte e sul suo imprevedibile destino


“La guerra è il sistema più spiccio per trasmettere una cultura.”
Anthony Burgess

Quasi settant’anni senza conoscere da vicino la sofferenza di una guerra. Ci siamo così talmente abituati, che non facciamo più caso a questa particolarità e per molti di noi è un avvenimento che riguarda soltanto qualcuno di molto distante, nel tempo e nello spazio. I nostri padri, che soffrirono prima l’infamia della dittatura e poi i patimenti delle distruzioni, dell’indigenza e della fame, alla fine di tutto ciò sembra che abbiano lasciato in eredità soltanto qualcosa di invisibile e impalpabile, difficilmente percettibile in assenza di un pensiero determinato, profondo e ragionato.
Da sempre, tutte le guerre e le relative conquiste territoriali hanno portato, insieme alla distruzione, un cambiamento radicale nella vita delle nazioni interessate coinvolgendone tutti gli aspetti: economico, sociale, militare, tecnologico e culturale. Questi ultimi due aspetti, per secoli sicuramente i meno rilevanti per la vita giornaliera delle persone e per il loro benessere primario, sono quelli che negli ultimi cento anni hanno particolarmente influenzato il nostro comportamento, molto più che nei tempi passati. La tecnologia, con la sua esplosione e rapida espansione, ha permesso la diffusione globale di un patrimonio culturale che, fino a pochi decenni fa, era egemonia di pochi fortunati. La diffusione della radio, dei mezzi di riproduzione audio e video sempre più perfezionati e per ultimo di internet, sono forse assimilabili come importanza soltanto al progresso della stampa dopo Gutenberg.
In passato, le guerre e le conquiste territoriali erano perpetrate per i motivi da tutti conosciuti. Si trattasse di espansionismo psicotico delirante o di uno scopo puramente economico, dopo di esse i popoli sconfitti vedevano modificare profondamente la loro particolare natura, uscendone a volte completamente distrutti e inabili a riprendersi e a volte rinvigoriti a seguito dell’annessione a popoli culturalmente affini o superiori. Dal 1945 a oggi, il mondo occidentale non ha più conosciuto guerre intestine devastanti. La macelleria della prima guerra mondiale e la devastazione a tappeto della seconda, sembrano lontani ricordi sopravvissuti soltanto in qualche memoria scritta o relegati in qualche reperto cinematografico d’epoca. Le guerre, da allora, l’occidente le ha vissute altrove: in Corea, in Vietnam, in Afghanistan, in Iraq e da esse, nonostante alcune sonore sconfitte, è riuscito talvolta a trarne vantaggi economici. La storia insegna che dopo la sconfitta del nemico, qualsiasi esso sia, avviene una metamorfosi nel DNA della nazione interessata. Il patrimonio culturale di essa, profondamente colpito, difficilmente tende a rinnovarsi esattamente come era prima. La contaminazione apportata dai nuovi conquistatori, anche quando per molti versi può apparire positiva, inevitabilmente tende a causare un depauperamento dei valori precedentemente custoditi da quella particolare società o nazione sostituendoli con altri, spesso contrastanti se non addirittura completamente differenti. A volte, triste destino, questo cambiamento risulta decisivo per un nuovo e dinamico sviluppo della società. Il processo di cambiamento/sostituzione, che una volta richiedeva alcuni ricambi generazionali, nel dopoguerra è avvenuto molto più velocemente che in passato, senza lasciare il tempo biologico di “digerire” l’avvenimento storico in sé. In tutto il mondo, nonostante i profondi cambiamenti politici e sociali avvenuti, per primo la rivoluzione del ’68 e poi la fine della Guerra Fredda con caduta del Muro di Berlino, abbiamo assistito poco a poco ad una sorta di omologazione culturale inevitabilmente causata dall’avvento tecnologico e che ha coinvolto i molteplici aspetti della vita quotidiana. La diffusione delle comunicazioni di massa e la facilità di spostamenti, hanno contribuito in modo sostanziale allo scambio di idee, costumi e comportamenti abituali. La stessa alimentazione, varia, ricca e sovrabbondante rispetto al passato, ha avuto un ruolo determinante nella diffusione degli scambi culturali. Ovunque oggi, è possibile pranzare italiano o cinese al mattino e indiano o turco alla sera. Possiamo cenare a Parigi e pranzare a Tokyo con una facilità impensabile soltanto fino a pochi anni fa. Allo stesso modo, accendendo la tv satellitare, possiamo assistere in diretta ad un concerto dei Berliner Philharmoniker e poco dopo a uno spettacolo Kabuki, magari interrompendolo per rispondere a una telefonata, per poi riprenderlo già registrato. La diffusione del PC e del web ha siglato, per ora e in modo indelebile, i nostri comportamenti abituali. In poco più di dieci anni ci siamo completamente trasformati senza rendercene conto, azzerando i concetti di tempo e spazio,  ribaltando e trasformando la loro natura analogica inevitabilmente legata alla percezione umana e poi quella metafisica, già in parte azzerata secoli fa dall’avvento della misurazione del tempo pervenuto alla portata di tutti e dall’avvento della stampa e della cartografia. Una volta esistevano i custodi del tempo coi loro campanili e quelli dello spazio con le loro biblioteche e carte geografiche. Oggi, i custodi di questo patrimonio siamo tutti noi, o se non altro, pensiamo di esserlo.




“Imparare è un'esperienza; tutto il resto è solo informazione.”
Albert Einstein

La singolarità nella quale più o meno inconsciamente stiamo vivendo, non ci permette di dedicare particolare attenzione alla natura e alla qualità di tutto ciò che, in tempo reale, desta la nostra attenzione e ne favorisce la fruizione quotidiana. Siamo tutti assuefatti a comportamenti dati per scontati e che consideriamo siano destinati a durare in eterno. La diffusione generalizzata dello scibile umano, da quello più banale a quello più elitario, che coinvolge arti, scienze e mestieri, ha favorito la nascita di un immenso oceano, un contenitore alla portata di chiunque dove è apparentemente facile navigare, ma altrettanto facile perire fra i suoi flutti. All’uomo comune è stata concessa una patente nautica per essere al comando di un transatlantico,  ma non ci si è resi conto che per ora è in grado di condurre, sì e no, una barca a remi. E’ un po’ la storia del gatto che, specchiandosi, si ammira leone. Di fronte allo schermo del nostro PC, il più potente simbolo odierno del raggiungimento tecnologico, tutti noi ci sentiamo un po’ leoni, ma siamo pronti a ricrederci nell’istante in cui ci rendiamo conto di essere soltanto dei topolini in presenza di un gatto famelico.

Tutte le attività che per loro natura tendono a coinvolgere la parte più razionale dell’uomo, necessitano da sempre di un approccio decisamente più scientifico. Se è immaginabile un’iniziale scienza intuitiva in quanto assioma, non è assolutamente immaginabile una scienza improvvisata nel momento in cui si trasforma in postulato. Occorrono conoscenze precedenti che non possono lasciare dubbi o incertezze di sorta. Ciò non è indispensabile per altre attività umane, o meglio, da poco tempo non è più necessario. In campo artistico, ad esempio, azzerate le barriere stilistiche nelle arti figurative, nella letteratura e nella musica, l’espressione è diventata, “democraticamente”, patrimonio di tutti. Tutti dipingono, tutti scrivono, tutti suonano uno strumento, tutti compongono. E’ chiaro che in una situazione così disorganica, solo pochi personaggi veramente geniali e in grado di distaccarsi dalla limitatezza generale sono in grado di “inventare” e di conseguenza emergere per essere ricordati, anziché, nel caso più fortunato, essere relegati in un’enciclopedia. La particolarità del nostro momento storico, in cui la libertà d’espressione è per tutti noi sacrosanta e che non concepiamo altrimenti, fa sì che tutte le nostre attività, dalle più elitarie alle più accessibili, si uniscano in un immenso calderone dove è pressoché impossibile distinguere il vero dal falso, il genuino dall’artefatto, l’obiettivo dall’inattendibile. E’ una situazione paradossale perché, se da un lato concede la possibilità di esprimerci secondo ciò che ci è connaturato ma negandoci la visibilità, dall’altro, concedendoci apparentemente l’accesso a una miriade di informazioni, ci impedisce di padroneggiare una libera e vera conoscenza. Sul piano strettamente critico, in mancanza di definizioni, paletti, barriere, siamo quasi incapaci di valutare il nostro operato finale perché non è più soggetto a modelli culturali ben definiti. E’ una situazione antropologica anomala, decisamente atipica e sconosciuta nei tempi passati, quando le regole imposte dalla società dettavano i limiti entro i quali l’espressione personale poteva aver luogo, seguendone mode, costumi, vizi e consuetudini. Un mondo sicuramente più sicuro e blindato, talvolta ingegnosamente contaminato da lontano e incrinato da personaggi geniali, gli unici meritevoli di emergere e gli unici, spessissimo, condannati per la loro diversità rispetto allo “status quo”.  
E’ chiaro che per l’uomo normale, in questo contesto risulta difficilissimo, se non addirittura impossibile, formulare personali criteri di valutazione adeguati e indipendenti senza ricorrere per forza a condizionamenti esterni. A meno che non sia in possesso di conoscenze specifiche in un particolare campo, comunque limitate all’educazione estetica ricevuta e non sia in possesso di una particolare autonomia di giudizio, difficilmente potrà farsi un’idea convinta di un’opera dell’ingegno o di un’opera d’arte. Nel caso dell’opera d’arte, sempre che tale sia, sarà ancora più difficile, in assenza di quei confini convenzionali che un linguaggio, per essere tale, necessariamente richiede. Nel “mare magnum” in cui le arti da tempo si trovano, è divenuto difficile affidarsi ai medesimi criteri di valutazione del passato. Non che sia impossibile, è soltanto, concretamente, inutile. E’ inutile perché qualsiasi valutazione affidata a canoni estetici riferiti a modelli culturali precedenti, inevitabilmente deve fare i conti con lo sterminato e differenziato mondo attuale, senza più confini, eccettuati quelli geografici, e destinato ad ampliarsi sempre più in virtù dello sviluppo tecnologico che avanza inesorabile. I rischi della situazione in atto sono sotto gli occhi di tutti. L’azzeramento dei confini culturali, l’omologazione forzata verso un pensiero unico, quello dettato dalla tecnologia, l’appiattimento verso comportamenti forzosamente e sapientemente pilotati e la difficoltà di discernimento da parte delle generazioni più giovani, inducono a pensare che in breve tempo possa avvenire una sorta di lobotomia totale delle coscienze, col conseguente cambiamento radicale della personalità degli individui e delle loro esigenze.
 


“Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso e si usano le opere d'arte per guardare la propria anima.”
George Bernard Shaw

La possibilità odierna di potersi confrontare con un universo di opportunità, sensazioni e godimenti infinito; il potersi esprimere in modo inadeguato e disordinato, inutile e a volte controproducente al nostro essere; l’avere a disposizione una bengodi di risorse illimitate accompagnata però da una sorta di torpore ipertrofico dell’intelletto, spinto a ricevere in modo acritico quantità enormi di sollecitazioni, potrebbe far sì che il nostro cervello, talmente pressato da eccitamenti di ogni genere, potrebbe non essere più in grado di esprimersi naturalmente e, anziché svilupparsi armoniosamente nei tempi e modi dettati dalla nostra umana natura bisognosa di consolidarsi nel tempo, potrebbe congestionarsi fino al punto di non recepirne più alcun beneficio. E’ in gioco la struttura analogica del nostro modo di pensare che rischia di subire un corto circuito a causa del sovraccarico di stimoli. Le premesse per questo accadimento ci sono tutte e i primi segnali d’allarme di questa aberrante situazione sono stati ormai percepiti. Senza un mirato intervento finalizzato al cambiamento radicale e concreto della società, potremmo assistere alla fine dei comportamenti analogici dell’uomo, a iniziare da una delle sue vitali manifestazioni: l’espressione artistica nelle sue molteplici forme e linguaggi.
Di sicuro, parte dell’arte come è comunemente intesa, cioè una necessità d’espressione individuale, raramente collettiva, da tempo ha iniziato a modificarsi. In certe circostanze si è trasformata in una manifestazione sprovvista di un’anima idonea a farle da motore. Che riguardi la letteratura, l’arte figurativa o musicale, si è convertita in denuncia, in provocazione pubblica, in dissacrazione determinata. La differenza col passato non sta nel merito del messaggio, peraltro gloriosamente già perpetrato da grandi geni, bensì nel suo più intrinseco valore: la mancanza di quella parte “soprasensibile” che ne fa oggetto e non più soggetto. In assenza di quella parte “soprasensibile, trascendentale, mistica, sublimata”, definiamola come ci pare, l’arte diventa altra cosa. Le collettività non hanno mai dimostrato di riuscire a esprimersi armoniosamente e al massimo grado senza ricorrere a un ideale. Quando lo hanno fatto, si sono presto trasformate in brutali strumenti atti a rivoluzionare una particolare situazione, dimostrando però di non essere in grado di gestire circostanze più complesse. E’ in quel momento di instabilità che i popoli necessitano di un cambiamento radicale della loro vita che ne modifichi le esigenze, li induca ai doveri dimenticati e che ne riorganizzi la struttura sociale. In passato, il capo “di turno”, generalmente un individuo mediocre, era sempre pronto a raccoglierne l’istanza e, nonostante fosse animato da oneste intenzioni, commetteva prima o poi errori irreparabili. La storia insegna che dopo il periodo di consenso, inevitabilmente sopraggiungeva la sua caduta e con essa il disastro della guerra che, come si sa, faceva piazza pulita di tutto e di tutti. Dopo di essa, come dicevo all’inizio, ai popoli erano riservate due possibilità: l’annichilimento o la rinascita. Oggi le guerre sanguinarie non le vuole più nessuno. Troppi costi umani, troppi imprevisti, troppa visibilità. Per rimodellare un popolo, una nazione o una zona geografica è sufficiente una guerra tecnologica adatta a manovrare i mezzi di comunicazione. Ha l’effetto di “rimodellare” le coscienze attraverso l’induzione verso nuovi comportamenti; silenziosamente può spingerci alla predilezione per questo o quel prodotto culturale oppure costringerci ad atteggiamenti inadatti e pericolosi. In pratica, può condizionare il nostro comportamento muovendoci  verso scelte positive o negative, per noi stessi e per la società. La “realtà virtuale” nella quale siamo immersi, ha già la possibilità di farci credere qualsiasi cosa: dall’arrivo dei marziani in Patagonia allo scoppio di una inesistente epidemia in Canada, al crollo fittizio delle borse in Oriente.
Prima o poi, è inevitabile, giungerà il momento in cui, con determinazione, si dovrà provvedere a cambiare la situazione dal profondo. Si tratta della sopravvivenza dell’uomo secondo la sua primaria natura programmandone il suo ri-dimensionamento, pena la sua estinzione; cancellarne l’eresia antropocentrica, pensando a un ritorno alla semplicità che potrebbe garantirgli visioni straordinarie. Paradossalmente, proprio grazie a questa tecnologia, in questo momento apparentemente devastante, si potrebbe essere pronti a ricondurlo nuovamente alla sua origine, evitando una situazione di stallo per l'umanità e scongiurando il giorno nel quale probabilmente potrebbe essere troppo tardi per trovare qualsiasi soluzione.

“La persona, in generale, significa una sostanza individua di natura ragionevole. L’individuo poi, è ciò che è indistinto in se stesso e distinto dagli altri. Perciò la persona, in qualsiasi natura, significa ciò che è distinto in quella natura, così nella natura umana significa questa carne, queste ossa, quest’anima, che sono principio di individuazione per l’uomo; le quali cose pur non facendo parte del significato di persona, tuttavia fanno parte di quello di persona umana”
Tommaso d’Aquino